La rete è potenziale, opportunità, espansione e condivisione. Ma sempre di più dobbiamo fare i conti con i suoi limiti.
Quali sono i rischi che corriamo a mostrare il privato in rete come terapeuti? E quali le conseguenze nella relazione con i pazienti?
Il dott. Freddy Torta nel recente articolo “Lo psicologo in vetrina” pubblicato nel blog “Il corpo nella rete” si domanda “Che cosa fanno gli psicologi nella vetrina di Facebook?”.
E ancora, sempre rispetto ai social network ed al rapporto terapeuta e paziente, esistono linee guida che il terapeuta deve seguire? E il Codice Deontologico ci può aiutare?
Sono stata paziente e sono psicoterapeuta. Questo mi ha dato la possibilità, indossando entrambe le vesti, di esplorarne la varietà dei vissuti.
Da paziente a volte ho sentito la naturale curiosità di sapere tutto dei miei terapeuti. E so cosa significa fantasticare e immaginarne il mondo che gli sta intorno.
Non abbiamo condiviso l’amicizia su Facebook, e ne sono contenta. E non mi è affatto dispiaciuto, quando Facebook ancora non esisteva, aver conosciuto soltanto nome, cognome, indirizzo e poco altro di questi professionisti.
Si parla di transfert perché i sentimenti del paziente verso il terapeuta spesso sono connessi alle relazioni significative della sua infanzia. Emozioni e pensieri sono perlopiù inconsci. Accade quindi che egli viva nella relazione con il terapeuta le sensazioni del bambino che è stato, e quindi anche deprivato, non visto, accolto o abbastanza amato.
E talvolta le ferite dei pazienti sono così profonde da generare fantasie inconsce animate da sentimenti tutt’altro che gioiosi.
E maggiore è la profondità delle ferite e minore sarà la gioia che popolerà le fantasie inconsce nei confronti del terapeuta. Di conseguenza mi chiedo a quali sollecitazioni è esposto il paziente nel caso in cui acceda di continuo attraverso i social alla vita privata dello psicoterapeuta. 
Certo le fantasie sul terapeuta possono attivarsi a prescindere dalla condivisione dell’amicizia su Facebook.
Facebook ha poco più di dieci anni e l'attività immaginativa che può nascere nel transfert non ha certo debuttato con la sua nascita.
Tuttavia, poter attingere alla vita privata del terapeuta attraverso foto e immagini dai social network credo possa alimentare esponenzialmente le fantasie del paziente. Oltre al fatto che sarà presumibilmente esposto alla naturale tentazione di sapere, guardare e controllare.
Se poi egli è in grado di raccontare i pensieri scaturiti da un’immagine che riguarda il terapeuta e che ha visto su Facebook poco prima del consueto appuntamento, vorrà dire che quella seduta sarà una buona opportunità per analizzare i contenuti transferali. Ma se non è in grado di farlo, per vergogna, disagio o qualsiasi altra difficoltà, il loro destino è quello di rimanere in segreto ad abitare la sua mente.
Ma questa sorte riguarda tutte le fantasie che vengono taciute, siano esse scaturite da un’immagine su Facebook, siano esse comparse d’improvviso nella mente, senza stimoli né input esterni.
Personalmente, come terapeuta, non chiedo ne concedo l’amicizia su Facebook ai pazienti. E lo faccio per due ragioni. La prima è deontologica e qui di seguito riporto l’articolo del Codice Deontologico a a cui intendo riferirmi. In secondo luogo, cerco di assolvere ad un mio desiderio di privacy e di confini definiti. Nel contempo vivo a Genova, una città piccola, e metto in conto l’eventualità di incontrare sotto casa un mio paziente, la domenica vestita da jogging o con mio marito, amici o famiglia.  Questa situazione di vita reale non mi sembra molto lontanao da quella in cui un paziente vede una mia foto su Facebook: in entrambi i casi egli può trascorrere serenamente il resto della giornata oppure possono iniziare ad innescarsi pensieri più o meno consci sul mio conto.
Tuttavia, se la prima situazione è fortuita, la seconda implica una volontà reciproca e significa che il terapeuta decide di condividere parte della sua propria vita, benché fatta caratterizzata da sole parole e immagini, con il paziente.
Postare immagini di vita privata ove l’accesso sia permesso anche ai pazienti è, quantomeno a mio avviso, un fattore di unione tra ruolo professionale e vita privata.
E l’articolo 28 del codice Codice Deontologico ci ricorda che:
“Lo psicologo evita commistioni tra il ruolo professionale e vita privata che possano interferire con l’attività professionale”.[1]
Allo stesso modo in cui non ci è permesso per deontologia di prendere in carico pazienti con i quali intratteniamo o abbiamo intrattenuto “relazioni significative di natura personale”,[2] credo che essere amici su Facebook, o condividere informazioni private in rete, anche se in misura minore, possa alla lunga generare la stessa tipologia di interferenze, difficoltà o confusione, almeno per quanto mi riguarda.
Sarà sempre più difficile tenere la nostra vita privata lontana dal web, ma penso sia importante come terapeuti continuare a farlo. Per esempio creandoci un profilo che ci rappresenti soltanto per il ruolo che rivestiamo professionalmente, per diffondere eventi, attività o informazioni inerenti alla professione e cercando in questo modo di proteggere la particolarità e la delicatezza che caratterizza la relazione terapeuta-paziente.
In conclusione che cosa rischia un terapeuta che condivide la propria vita e diventa “amico” sui social di colui che amico non può affatto chiamare?
A mio avviso di aderire alla stessa dimensione di confusione che oggi vede i genitori vestire allo stesso modo, parlare lo stesso linguaggio e giocare agli stessi giochi dei propri figli noncuranti degli effetti che questa “amicizia” nonché l’assenza di confini, possono avere sui figli stessi.

[1] Art.28 Codice deontologico degli psicologi italiani.
[2] Ibidem.