con la collaborazione di Attilio Gardino, autore dei paragrafi 5, 6, 7 e 8 della sezione 2 Grounding, N. 2 2012, Franco Angeli

 

1 - IL CORPO GIOCATO

 

Il corpo giocato: un’espressione sibillina.
Riflette più cose.
Nell’attuale cultura occidentale il corpo è sempre più protagonista.
Con il ruolo più che altro di primattore gonfiato, di motore truccato.
 
Non più fonte di dati e risorse provenienti dal nostro io animale, quella funzione ricettiva e propriocettiva che raccoglie dal mondo esterno e dal mondo interno.
Mettiamo in gioco il corpo nel grande spettacolo narcisistico e multimediale dell’apparire: in questo modo, molto spesso, ce ne prendiamo gioco.
Tradiamo la funzione naturale del corpo, fonte di conoscenza e di espressione di energie personali, in nome di una performance quotidiana su vari scenari: quelli del lavoro e del tempo libero sociale, e anche quelli dell’intimità familiare e personale.
Il tutto naturalmente è spesso inconscio: ci siamo adattati ai costumi del Dio Narciso.
Il corpo è modellato, come un modello bello da mostrare: ci si occupa sempre di più di questo aspetto, perdendo lo spazio, il tempo e la coscienza del sentire.
Invece dei dati che possono arrivare dai cinque sensi, e dal meraviglioso sesto senso, che contiene risorse ingenti e spesso sconosciute, e quindi da esplorare, sintonizziamo le nostre attenzioni ed azioni sul programma di moda, e di mercato, che ci viene approntato dalla “nostra” cultura standardizzata e globalizzata.
Vogliamo il nostro corpo bello e bravo: ed ecco che lo rendiamo schiavo delle prestazioni pompate dalle tabelle “ottimali”, ed ottimistiche, dell’atleta di massa e del lavoratore che piace ad un sistema decadente sul piano economico e culturale.
Ridotto ad un fantoccio ammaestrato, il corpo tradito a sua volta tradisce: si “spompa” ben presto e finisce nella officina della medicina e della farmacia.
Con tutto il rispetto naturalmente per quanto di buono e progressivo esiste, per fortuna, nella ricerca e nella pratica della medicina internazionale.
Il corpo, imbalsamato in questi riti, non sente quindi più e si nutre di immagini: siamo un Narciso che si specchia nella fonte deformante delle immagini globalizzate.
Anche il computer, straordinario mezzo di progresso, può diventare un mezzo di regresso del corpo ad una funzione passiva e spesso malnutrita d’illusioni.*1
E’ nato e cresce un Narciso narcotizzato, che apre la finestra sul mondo con un dito: il clic dell’illusione di potersi specchiare in quel che più gli piace.
Mentre si perde il potere reale dell’animale uomo.
Il grido libertario del ‘68, “l’immaginazione al potere”*2 sembra essere imploso in un reflusso piuttosto acido, almeno per alcuni: “l’immagine al potere”.
E’ il culto dell’immagine, ormai, “l’oppio dei popoli”.
Le nuove generazioni sembrano a rischio di una mutazione strutturale, dal punto di vista psicosomatico e cognitivo: un voyeurismo di base eccita il loro organismo giorno dopo giorno, sin dai teneri passi dell’infanzia.
Per le generazioni diventate adulte nell’ultimo ventennio, il nuovo potere della Dea Madre Immagine si è innestato su un sostrato preesistente.
Da adolescenti passavano gran parte del loro tempo in connessione con la realtà più che con il virtuale: potevano magari stare ad osservare una lucertola respirare nel sole, un treno fischiare sul suo binario, un vecchio con il suo bastone addormentato su una panchina…
Certo potevano perdersi anch’essi nel labirinto delle immagini, delle proprie celesti fantasie, ma erano pur sempre sostenuti da esperienze generose di contatto con il reale.
Ora molto è cambiato: non c’è più un tempo garantito per la lucertola al sole, quando con un clic si possono trovare i vari tipi di lucertola che esistono nel mondo, comprese quelle delle fantasie dei creatori d’immagini: ed eccoli lì, troppo spesso, milioni di giovanissimi con gli occhi su uno schermo luminoso, senza l’impegno (ed il piacere) di tutti gli altri sensi.
Non è più una conoscenza reale.
O meglio, è un altro tipo di realtà: forse proprio questo è il punto!
Nel senso che gli adulti di oggi integrano questo nuovo sistema cognitivo-psicosomatico in un sostrato preesistente, mentre gli adolescenti di oggi lo strutturano ex novo.
Sia ben chiaro, qui non s’intende per nulla sminuire le grandissime potenzialità ed attualità che ha il divenire informatico, in tutte le sue ampie accezioni.
Al contrario! Dall’integrazione di questo mondo con il mondo del corpo reale è auspicabile attendersi una rivoluzione umanistica e scientifica, che riassesti i destini dell’animale uomo.
Perché questo possa avvenire è necessario al più presto fuoriuscire dal labirinto della cultura del Narcisismo dominante.
Altrimenti il mondo e l’essere umano continueranno a camminare a testa in giù, verso quali mete non si sa.
O forse invece lo si può prevedere.
Come riusciva a prevederlo Alexander Lowen quasi trent’anni fa, nel 1983, quando scriveva con parole lungimiranti e magistrali:*3
“I narcisisti sono più preoccupati di come appaiono che non di cosa sentono.
In realtà negano i sentimenti che sono in contrasto con l’immagine che cercano.
Agendo senza sentimenti, tendono ad essere seduttivi e manipolativi, aspirano ad ottenere il potere ed il controllo sugli altri.
Sono egoisti e presi dai loro interessi, mancano dei veri valori del sé – cioè espressione e padronanza di sé, dignità, integrità.
I narcisisti mancano del senso di sé che deriva dai sentimenti del corpo. ”…” livello culturale il narcisismo può essere visto come una perdita di valori umani: viene a mancare l’interesse per l’ambiente, per la qualità della vita, per i propri simili. ”…”
Quando la ricchezza occupa una posizione più alta della saggezza, quando la notorietà è più ammirata della dignità e quando il successo è più importante del rispetto di sé, vuol dire che la cultura stessa sopravvaluta l’ -immagine- e deve essere ritenuta narcisistica ”…”
I narcisisti sono caratterizzati dalla mancanza di umanità.
Non sentono la tragedia di un mondo minacciato dall’olocausto nucleare, non sentono la tragedia di una vita spesa a cercare di dimostrare il proprio valore ad un mondo indifferente. ”…”
C’è qualcosa di assurdo in un modello di comportamento che pone il raggiungimento del successo al di sopra de bisogno di amare e di essere amati.
C’è qualcosa di assurdo in una persona che non è in contatto con la realtà del suo essere – il corpo e i suoi sentimenti.
E c’è qualcosa di assurdo in una cultura che inquina l’aria, le acque e la terra in nome di uno standard di vita -più elevato-.”
 
2 - IL CORPO NELLA RETE

 

1 - L’amicizia allo specchio

 

I social network, in primo luogo Facebook, a quanto pare il più apprezzato dalle generazioni dei più giovani, offrono esempi dei rischi di quella mutazione a cui si accennava sopra.
Sia ben chiaro, non si intende qui mettere in discussione Facebook come strumento: può essere infatti, ed in effetti è per molti aspetti, mirabile volano di comunicazione e di progresso: il pericolo sta nel modo in cui lo si utilizza.
Un mondo virtuale di amici, che in molti casi non sono realmente tali, può essere un ambiente stimolante.
Se il piacere però è quello di specchiarsi nel gioco degli specchi, a rimirare la clonazione di amicizie virtuali, non è forse come incantarsi nelle svariate sequenze di lucertole incappate nella rete virtuale e non fermarsi mai ad osservare una lucertola al sole?
Anche i gruppi virtuali, non di rado, hanno lo stesso segno: con il caleidoscopio narcisistico della grandiosità, riempiono di coriandoli le intelligenze più tenere, rimaste sole davanti al computer a interfacciare Facebook.
Lievitati da catene di amici, molti gruppi sono probabilmente abbastanza fittizi.
Fanno apparire il numero elevato dei propri iscritti come un segno della propria consistenza ed affidabilità, quando invece si tratta per lo più di un numero di utenti che hanno cliccato una semplice adesione, senza particolare
impegno personale, essendo la persona tutta intera seduta su una sedia a casa sua.
Questo, sia detto ancora, nulla toglie al fatto che ci possano essere alcune situazioni in cui questo virtuale diventa promotore e-o ripetitore di un impegno reale.
Come, per fortuna, ci capita talvolta di osservare.
Ecco quindi un problema.
Se ho scambiato l’amicizia con 1000 persone e interagisco di fatto con 50, con quante ho un’amicizia reale?
E se un gruppo conta 10.000 adesioni e intervengono in 500, su quanti si potrebbe contare per fare qualcosa di reale?

 

 

2 - Il piacere di piacere

 

Ma questo non è l’unico problema, è solo quello forse più evidente.
L’ambiente in cui avviene lo scambio ha dei binari altamente connotati dal Narcisismo di moda, che privilegia l’alta velocità di un piacere distorto: quello del piacere di piacere.
Con il clic sul “mi piace” si celebra quel rito che sacrifica sempre più diffusamente il piacere reale, soprattutto il piacere del corpo in tutte le sue varie espressioni.
“Essere o non essere…” non è questo il problema…
Il problema è diventato “piacere o non piacere…”
Il mondo dei reality televisivi, che ha colonizzato per anni le attenzioni di molti innamorati dello schermo, è transumato con tutto il carrozzone di bagagli nella nuova regione della nuova stagione: i social network.
I grandi fratelli, gli amici, le isole dei famosi, ci avevano insegnato che si poteva diventare i primi seguendo i loro schemi di espressione e relazione.
Il mito della vittoria ha nutrito e plasmato i più ingenui, indotti ad imitare i modi dei modelli, per piacere ad un pubblico di giudicanti, di pretendenti replicanti, in una giostra continua di esibizioni per la messa in scena di una stereotipata libertà d’espressione, assetata di un unico e comune risultato: il non restare fuori.
Rimanere dentro al luna park dei sogni di successo e denaro, di privilegio pagato caro, con tanto sacrificio: quello del proprio mondo individuale ed autentico.
Un grande luna park, celebrato ogni giorno nel mondo degli schermi e trasferito poi sul palcoscenico quotidiano: nelle case, nei posti di lavoro, nelle scuole, nei luoghi degli incontri, dove cercare di replicare quelle parti applaudite la sera prima…
Portenti delle genti televisive e televisionarie…piccolezze però, se paragonate al firmamento che ha nome Facebook!
L’epopea, per chi vuole, può restare la stessa, ma qui si diventa facilmente i primattori ed è possibile una grande varietà di stili e di comportamenti, molto più raffinati, sottili ed eleganti: tessuto connettivo prevalente, vera religione dominante, sembra ancora il principio del piacere di piacere, che alla fine sembra diventare il piacere principale.
Forse Lucifero, precipitando giù dal Paradiso, ci ha lasciato l’Inferno dorato del Narcisismo.
Bruciano lentamente le anime ancora tenere di quei giovani che non sono dotati delle protezioni necessarie, per navigare i flutti del pelago infuocato d’invidia e di rancore, peccati originali della nostra cultura decadente.
Andiamo sul concreto, con qualche esempio, per non star troppo qui a filosofare.

 

3 - Il peso dell’immagine

 

La velocità della digitazione e della pubblicazione del messaggio, crea una grande illusione di potere, suscettibile di diventare grande delusione.
Sulla vetrina della propria bacheca compare in pochi secondi tutto quello che ci viene voglia di pubblicare, i nostri pensieri, le nostre immagini e via dicendo.
Potremmo essere in mutande, con la barba non fatta o i bigodini in testa, slavati e trasandati, magari un po’ depressi, insomma poco gradevoli e poco presentabili, ma possiamo comunque brillare, con le migliori foto e parole frizzanti: non importa chi siamo ma ancora una volta chi vogliamo mostrare di essere.
E il giorno dopo, con la barba fatta o la messa in piega, e con la maschera ben spolverata, dobbiamo sostenere la nostra parte pubblicizzata: una bella fatica!
Qualcuno prima o poi non ce la fa e la caduta nella depressione, quando non nella vera e propria paranoia, sarà tanto più dura quanto più manipolata sarà stata la falsa immagine: cadere mentre stiamo sulle gambe è ben diverso dal precipitare giù dal nostro cielo mentre stiamo volando troppo in alto.
Digitare qualcosa stando comodamente a casa propria, presi dalla dinamica eccitata della comunicazione narcisistica, dove ognuno ha il potere, se vuole, di sentirsi un leone, è un’esposizione mediatica da sostenere poi nella realtà.
Il nostro pubblico lo incontreremo al lavoro, oppure a scuola, negli spazi sociali, dove noi immaginiamo si aspetterà da noi quel piglio e quell’appeal che esibiamo sul network…e spesso ce lo aspettiamo pure noi.
Una situazione per nulla facile: può essere fonte di grande conflitto, con fughe in avanti verso un movimento “virtuale” nel reale, sempre più esibito e ridondate, che allontana soltanto il momento della “verità”, oppure con un rallentamento del movimento vitale verso gli altri, quando non un ritiro, nel timore di tradire il “virtuale” col “reale”.
Una trappola dunque, con ricadute psicosomatiche.
Da un lato la sovreccitazione e il surriscaldamento, qualche volta anche foraggiate da interventi a “sostegno” di tipo farmacologico, quando non dell’alcool o di una qualche droga.
Dall’altro la contrazione ed il congelamento, che possono portare verso gli stessi mezzi di “sostegno”.
Sia ben chiaro, ancora una volta, che questo è solo il lato negativo: prima di questi estremi ci sono le più diverse sfumature, tra le quali, per nostra fortuna e per fortuna soprattutto dei giovani in questione, miriadi d’interazioni socialmente ed individualmente costruttive, miracolo dei tempi della nostra informatica superveloce.

 

 

4 - Il pensiero oppositivo

 

“Dobbiamo capire che la nostra mente è il nostro nemico…” dice in una recente intervista*4 James Hillmann, l’ottantacinquenne psicologo autore de “Il codice dell’anima” (Adelphi Edizioni, 1998) e di un’altra ventina di libri.
Fa riferimento al pensiero oppositivo, ovvero “...il pensare per opposti che risale ad Aristotele ed ha a che fare con una logica del tipo o/o: se una cosa è così, non può essere nell’altro modo.
Ma in realtà il mondo non è così. Per esempio, la maggior parte della gente crede che l’opposto del bianco sia il nero, ma ci sono sfumature di nero (dal colore dei mirtilli, a quello del carbone, o a quello dei merli) e non hanno niente a che fare con il bianco. Il problema è imparare a valutare ogni questione nel merito, senza dover ricorrere al punto di vista dell’opposto…”
Considerazioni che dovrebbero stare alla base di un atteggiamento cognitivo, critico e costruttivo.
Si può purtroppo constatare che la comunicazione su Facebook rischia di essere la celebrazione del pensiero oppositivo.
Sulla vetrina degli amici virtuali, il pulsante del mi piace favorisce l’automatismo del non mi piace e produce la contrapposizione semplicistica e lo schieramento per opposti.
Il non mi piace è come la faccia nascosta della luna. Anche se non si vede come pulsante attivo, grava sul mondo della comunicazione in vetrina e trova facilmente la sua strada per materializzarsi nei commenti di segno opposto: nella semplificazione del pensiero oppositivo basta un pulsante solo, quello del mi piace, per attivare in molti casi la pulsione del non mi piace.
Con la successiva introduzione del pulsante mi piace applicato anche ad un commento e non più solo ad uno stato, il gioco è diventato più complesso.
La procedura stereotipata e sempre più abusata del mi piace può portare perfino a una riduzione della varietà della comunicazione: un paradosso per un social network.
Qualcuno nota già la tendenza, nei più giovani, ad esprimersi sempre meno con contenuti originali personali, a favore dell’automatismo del mi piace e del copia e incolla di materiali altrui.
Il tutto fatto comodamente a casa propria, senza impegnare il corpo nella relazione con gli altri: senza perciò la responsabilizzazione del sostenere il proprio giudizio con l’energia espressiva del proprio volto e del proprio corpo, che possono rivelare anche qualcosa dei sentimenti.
Un ping pong segnaletico a gran velocità, spesso superficiale, che aumenta il rischio dei fraintendimenti: si dicono sempre di più le stesse cose e si capiscono sempre meno bene.
E’ un gioco che si fa sempre più pressante e, nelle menti di alcuni dei più giovani, rischia di diventare un sistema non solo di comunicare, ma anche di pensare e comportarsi.
Le fondamenta di questo problema non sono certo una creazione dei social network: essi però ne diventano potente moltiplicatore, con gradienti di tipo esponenziale e il rischio di un salto di qualità di tipo strutturale.

 

 

5 - Hikikomori

 

Hikikomori, termine giapponese composto da due vocaboli: hiku (indietreggiare) komoro (isolarsi), indica un fenomeno significativamente diffuso in Giappone.
Questa parola definisce il rifiuto di avere una vita sociale attiva, che si concretizza nel ritiro nella propria camera da letto, avendo come “unico” contatto con il mondo il computer e la rete.
Stime, considerate da alcuni pessimistiche, parlano di una diffusione del 1% fra la popolazione giovanile giapponese.
Questo comportamento è preoccupantemente in espansione, coinvolgendo molti altri paesi compresa l’Italia.
James Roberson*5, antropologo culturale al Tokyo Jogakkan College, autore di “Uomini e mascolinità nel Giappone contemporaneo”, individua nella pressione della società giapponese esercitata sull’individuo per conseguire un successo personale, la possibile causa di questo fenomeno. Il mancato conseguimento di un livello sociale di prestigio, come l’appartenenza ad una particolare università o azienda, è vissuto dalla famiglia come un grave fallimento.
L’hikikomori viene quindi interpretato come rifiuto, resistenza, difesa verso questa pressione sociale.
Tamaki Saito*6, uno dei maggiori esperti di questo problema, non ritiene che la dipendenza da internet sia la causa dell’hikikomori, ma che questo comportamento sia piuttosto il prodotto di sentimenti di impotenza e depressione generati dall’incapacità di corrispondere in forma adeguata alle aspettative sociali.
Nonostante le indubbie differenze culturali, anche in Italia il fenomeno sta prendendo piede.
Secondo Saito i nostri “mammoni” potrebbero essere considerati i precursori del problema o la sua versione italiana.
Gustavo Pietropolli Charmet e Antonio Piotti*7, psicoterapeuti operanti presso l’Isituto milanese “Minotauro” ed esperti di questa problematica, dichiarano di aver verificato un significativo aumento del fenomeno.
I loro utenti sono genitori di figli generalmente maschi di età compresa fra i 14 e i 18 anni e con dei tempi di “reclusione” che possono arrivare a 4 anni.
Diverse sono le analogie fra la realtà giapponese e quella italiana, pur manifestando significative differenze.
“La fuga da…” unisce i due gruppi, anche se si diversifica nell’oggetto dal quale scappare: le regole troppo ferree per i ragazzi giapponesi, l’incapacità di gestire le relazioni di gruppo per quelli italiani.
Piotti individua le analogie con la popolazione giapponese sottolineando gli aspetti psicologici legati alla vergogna narcisistica, allo scarto fra i desideri degli adolescenti e la realtà, attribuendo questo iato alla eccessiva pressione esercitata dalle elevate aspettative familiari.

 

 

6 - Dall’intimità all’ estimità

 

Mezzo miliardo di utenti, un valore di 50 miliardi di dollari, 700 miliardi di minuti al mese complessivamente consumati nelle connessioni, 40 minuti al giorno mediamente passati sul sito per ogni singolo utente, sono alcuni dei dati che possono illustrare la portata di Facebook.
DigitalBuzzblog.com, spazio di approfondimento di tematiche relative ai social media, racconta che, nel giro di 20 minuti, più di un milione di link vengono condivisi, 2 milioni di richieste di amicizia vengono accettate e 3 milioni di messaggi spediti.
È una dimensione enorme d’informazioni, di emozioni, d’immagini, è un fiume ininterrotto di relazioni, più o meno intime, che si formano, si sviluppano e si interrompono.
Il noto sociologo e filosofo di origine polacca, Zygmunt Baumann*8, padre della definizione di liquidità attribuita alla società, alla vita e agli affetti/relazioni del nostro tempo, afferma quanto i social network e in modo particolare Facebook siano in grado di rispondere a due bisogni presenti nella società attuale (forse anche in quelle passate, ma allora più facilmente soddisfacibili): quello di mostrarsi per diventare qualcuno e quello di appartenere ad una comunità.
Esporre le proprie immagini, i propri pensieri, offre la possibilità istantanea, quasi magica e a costo bassissimo, di costruire un profilo, una fisionomia, un’identità che verrà giocata in una rete di relazioni virtuali.
Tutto ciò permette di esporsi esponendo un’identità creata ad hoc, di essere qualcuno, anche se in forma fittizia, di sentirsi parte di una comunità di persone con le quali condividere idee, passioni, eventi.
Serge Tisseron, citato da Baumann, evidenzia che con i social network si determina il passaggio dall’intimità, aprirsi all’altro, all’estimità, mostrarsi all’altro.
La mercificazione delle relazioni si concretizza nella metafora della vetrina: un’esposizione, una mostra di oggetti- immagine, per invogliarne o semplicemente permetterne l’acquisto.
Sempre Baumann mette in evidenza come un possibile effetto del social network sia quello di deformare le distanze rendendo vicine le persone lontane e lontane quelle vicine.
Robin Durban, antropologo inglese, afferma nel suo libro ”Dalla nascita del linguaggio alla Babele delle lingue” *9 di aver individuato una correlazione fra ampiezza della neurocorteccia e grandezza dei gruppi sociali.
Questa scoperta emerse dapprima dall’osservazione dei primati e successivamente fu verificata anche per l’uomo.
Seppure le società possano essere molto ampie, il numero di persone formanti un insieme di relazioni significative, se non proprio di amicizia, ruota attorno ai 150 individui e questa grandezza è direttamente proporzionale all’ampiezza della neurocorteccia dell’uomo.
Questa grandezza, con limitate variazioni, si può ritrovare nei secoli e nelle nazioni come dimensione base degli eserciti.
Quando la necessità di conoscersi e di conoscere le interrelazioni che caratterizzano la totalità delle persone, di sapere di chi fidarsi, di cosa potersi aspettare l’uno dall’altro acquisisce importanza vitale, il numero dei membri del gruppo non deve scostarsi di molto dalla fatidica grandezza della “compagnia”.
Al di sopra di questo numero il funzionamento dell’insieme sarà regolato da modelli organizzativi che non implicano necessariamente la conoscenza delle persone e la presenza di relazioni significative.

 

 

7 - Lontananza come prossimità rassicurante

 

Z. Baumann, S. Tamaki, come G.P. Charmet o A. Piotti, nel valutare l’impatto dei social media sulla popolazione giovanile, convergono nelle loro analisi su alcuni punti, pur partendo da presupposti diversi.
Lo strumento tecnologico non è ritenuto la causa delle possibili distorsioni comportamentali, che sono invece determinate dalla pressione delle aspettative dell’ambiente, sia in senso lato che nello specifico familiare.
È lo scostamento drammatico fra desiderio e realtà che spinge i ragazzi ad un uso distorto dello strumento tecnologico!
Lo spazio simbolico offerto dal social media, nei processi di hikikomori, sostituisce in forma radicale la realtà relazionale, percepita come impercorribile; mentre in una forma meno drammatica, integra una realtà relazionale percepita come insoddisfacente producendo, nella maggioranza dei casi, l’oscuramento della vicinanza, per allucinare la lontananza come prossimità rassicurante, come suggerisce Baumann.
Possiamo ritrovare questa dinamica in tutti i processi di formazione del carattere nevrotico, che ha come presupposto un ambiente incapace di cogliere la dimensione reale del bambino e conseguentemente la formulazione più o meno esplicita di richieste, di aspettative al di sopra del suo reale potenziale e del suo bisogno concreto.
Tutto ciò determina un conflitto che vede come protagonisti l’oggetto d’amore e il soggetto di quest’amore.
Quando per sopravvivere in questa realtà relazionale, l’unica possibilità che appare al bambino è di corrispondere ai desideri dell’oggetto d’amore, scompare la realtà (corpo) nella tomba narcisista, per far posto al teatro simbolico della finzione nevrotica e a tutto il suo bagaglio illusorio.
È in questa prospettiva che la realtà virtuale, meglio sarebbe chiamarla simbolica o illusoria, può entrare con quella forza che hikikomori drammaticamente evidenziano nel loro eccesso, ma che più facilmente si esprime, non tanto come potenziamento delle reali relazioni affettive, come sarebbe auspicabile, quanto come consolazione rispetto un reale troppo pericoloso ed inarrivabile.

  

 

8 La menzogna insita nel simbolo

 

pipa

 

Il quadro di Magritte “CECI N’EST PAS UNE PIPE” (Questa non è una pipa), del 1948, potrebbe essere considerato una sintesi esplicita del “Corso di linguistica generale”, il libro di Saussure*10.
Rappresenta, attraverso un’apparente dissonanza, la menzogna insita nel simbolo, evidenziando la soggettività della relazione intercorrente fra segno e realtà, sottolineando quindi la dimensione fortemente soggettiva del rapporto che lega il significato al significante.
È un invito a riflettere quanto i codici, i segni, i simboli e la loro arbitrarietà influenzino il nostro modo di percepire la realtà.
Già nel medioevo, secondo Jacques Le Goff*11, il pensiero considerava ogni oggetto materiale come la figurazione di qualcosa che gli corrispondeva su un piano più elevato e che diventava così il suo simbolo.
Il simbolismo era universale, e il pensare era una continua scoperta di significati nascosti, una costante ierofania (manifestazione soprannaturale del sacro): la realtà quindi si caratterizzava come una foresta simbolica in cui muoversi alla ricerca di un significato, di un senso che liberasse l’uomo dalla realtà stessa per consegnarlo ad una dimensione soprannaturale identificata come salvezza.
A.Lowen*12 afferma che “L’immagine dell’io (il suo rappresentante simbolico*13 plasma il corpo attraveso il controllo che esercita sulla muscolatura volontaria” e nella pagina successiva afferma: “Ora la condizione del corpo costringe la dialettica (i processi simbolici) e l’immagine di sé dell’individuo”.
Sicuramente le parole del fondatore della Bioenergetica rendono ancor più evidente la prigione in cui viviamo, la foresta in cui siamo immersi*14.
Nel mito di Narciso l’immagine, rudimentalmente generata dal riflesso dello stagno, è il luogo ove il figlio di Liriope incontra la morte, nel tentativo disperato di congiungersi al riflesso del proprio sé.
Ora la tecnologia, furtivamente consegnata da Prometeo agli uomini sotto forma di fuoco, ha dilatato l’illusione moltiplicando le immagini e inventando un virtuale proposto come alternativa auspicabile al reale.
È il trionfo del segno, del simbolo sulla realtà.
La sensibilità degli artisti a volte precede la storia indicandone lo sviluppo.
Ciò che era percepito già nel 1948 ora è quotidianità dolorosa.
Oggi oltre ad influenzare la percezione della realtà, il simbolo, il segno tende a sostituirla.
In quegli anni, le poche automobili che circolavano offrivano ai viaggiatori e in modo particolare ai bambini lo spettacolo della realtà che scorreva davanti ai loro occhi.
Il posto vicino al finestrino, se in treno, o vicino al guidatore, se in auto, era normalmente il preferito se non agognato.
Passavano ore ad osservare, a curiosare fra le immagini che scorrevano più o meno rapidamente sul vetro del finestrino e quando la velocità lo permetteva la testa veniva sporta per immergersi nel paesaggio o per vederne di più.
I finestrini sono stati per anni gli antesignani degli schermi cine/televisivi, che proiettavano sulle retine la realtà del viaggio che scorreva tutto attorno al passeggero.
Era l’estasi, la noia, la nostalgia, il timore o lo stupore per un mondo che scorreva, scivolava via senza lasciarsi prendere completamente, ma che poteva essere riempito di desideri, di fantasie e di memorie.
Ora lo schermo vero ha sostituito quello fittizio. Intere famiglie viaggiano apparentemente insieme, anche se ognuno è proiettato entro una realtà incondivisibile: in una dimensione estranea a quella del viaggio il computer, piuttosto che i teleschermi incorporati nei poggia testa (il posto più ambito è così diventato quello dietro il guidatore), delimitano e differenziano uno spazio affettivo e cognitivo ad uso esclusivo dello spettatore, immergendolo in una dimensione privata quanto fittizia.
Il viaggio, metafora elettiva della vita, acquista una valenza di senso diversa, perdendo l’antica rappresentanza.
È uno spazio vuoto da riempire con l’estraneazione dalla realtà stessa.
È l’antico conflitto fra mondo reale e mondo simbolico.

 

 

 

3 - UN PROGETTO

 

1 - Il corpo compositivo

 

Solo l’esperienza corporea, nella sua pienezza, è antidoto e correttivo a questo approccio fuorviante alla realtà: il corpo con l’integrità dei suoi sensi ricettivi, con la sua facoltà propriocettiva che raccoglie i segnali da dentro, si ferma sul colore dei mirtilli e su quello del merlo e ci può accompagnare a sentire l’emozione impagabile del vivere Il corpo, quando c’è un’apertura sufficiente delle proprie funzioni naturali, non induce il pensiero oppositivo.
Il sentire composito e complesso, che raccoglie la confusione dei dati, facilita un pensiero compositivo, creando una sintesi cognitiva dinamica e costruttiva.
Forse proprio questa paura della confusione e la ricerca della garanzia della semplificazione, alimentano il virus culturale ormai pandemico che, per dirla con Hillmann, produce la malformazione per la quale “la nostra mente è il nostro nemico…”.

 

 

2 - Il corpo “umano”

 

In questa cultura in cui il dito e gli occhi egemonizzano sempre più il nostro corpo e i dati per la mappa cognitiva vengono sempre più dall’uso del computer e sempre meno dalla ricezione sensoriale e dalla propriocezione, sappiamo sempre più chi vorremmo essere e sempre meno chi siamo.
E’ necessaria e urgente una rivoluzione copernicana, per un nuovo umanesimo che metta al centro dell’umano la sua sostanza psicosomatica: il corpo integrale ed integrato.
Una rivoluzione restauratrice che guarda avanti: un paradosso apparente ma immanente, come un “pendolo digitale” che batte e ribatte l’ora matura ed oscilla tra passato e futuro.
“Chi ha senno lo usi” si dice...”chi ha corpo lo usi” si potrebbe dire.
E allora tocca a noi, noi che abbiamo scoperto la bussola del corpo, la responsabilità di un lavoro per aiutare l’umano
a ritornare ad un futuro in cui il corpo sia umano.
Un’alfabetizzazione della ricezione sensoriale che integri su base materiale il “sesto senso”, senza indugiare nelle formule magico-ideologiche, accontentandoci ed insegnando che ci si può mirabilmente accontentare della magia del nostro corpo materiale, che irradia anche l’inconscio, un mondo sconosciuto e grande.
Un’alfabetizzazione, quindi, anche propriocettiva e “proprio emozionale”: giacché sappiamo che è nell’occultamento dei sentimenti negati la radice più dura e resistente, che consente una base “culturale” all’occultismo piramidale narcisistico, con il suo arsenale multimediale.
Dalla nostra parte, purtroppo, c’è un malessere grande: miriadi di giovani sono in alto mare e non sanno nuotare da soli per arrivare a quella sponda che noi chiamiamo “la matura età”.
Il mare molte volte sembra calmo e li vedi nuotare qua e là, dentro alla stessa acqua, magari con piacere: ma poi tutto finisce non di rado in un immobilismo noioso, qualche volta angosciante.
Quando poi c’è tempesta, per molti è il naufragio: chi si perde e chi annega.
Chi torna è spaventato, ma sovente diventa cosciente che non sa dove andare.
Sempre più spesso i naufraghi cercano un porto amico dove essere accolti.
Sempre più spesso li vediamo bussare al nostro uscio.
Psicologi, maestri, consiglieri, insegnanti, istruttori, genitori.
Per dar loro un approdo, serve un lavoro attento, che stia al passo coi tempi.
E con i tempi loro.

 

 

3 - Il corpo maestro

 

Non sono pochi coloro che ritengono che i ragazzi subiscano un’enorme valanga di parole da parte degli adulti: prediche, spiegazioni, sermoni, lezioni, intimazioni, intimidazioni…una grande rottura…
Da noi non debbono sentire la stessa musica!
L’insegnamento del linguaggio del corpo deve avvenire attraverso l’esperienza. e l’esempio.
Probabilmente essi cercheranno un maestro: dovremmo insegnare loro che il più grande maestro è il loro corpo.
Non immagini d’importazione, dunque, ma ricezione e propriocezione: ed elaborazione dei dati in comparazione dialettica con i dati acquisiti dagli altri, con l’intelligenza aperta su un panorama del mondo che sia ampio.

 

 

4 - Dal corpo che piace al piacere del corpo

 

Di questi tempi, più o meno, si giocano le sorti del futuro del mondo, almeno di quello “occidentale”.
Si parla molto, e giustamente, delle risorse disponibili, dello sviluppo sostenibile, delle energie rinnovabili del pianeta Terra.
Vogliamo allargare l’orizzonte al corpo dell’essere umano, che è la fonte delle risorse e delle energie dell’abitante più significativo di questo nostro mondo, dal punto di vista dell’impatto ambientale e dello sviluppo?
Come e quanto utilizziamo le risorse disponibili dell’animale uomo?
Chi si pone fino in fondo il problema se l’attuale sviluppo dell’essere umano, dal punto di vista ontogenetico, e perché no anche filogenetico, sia davvero per esso sostenibile, e per quanto?
Quanto si preoccupa la Scienza Ufficiale della ricerca sulle “energie rinnovabili” dell’organismo umano, che non siano quelle da mettere sul mercato?
Al di là dell’ideologia del populismo spiritualistico di certa avvenente e avventata “new age”, vi è uno spazio enorme di vuoto culturale, globalizzante e globale.
La Scienza più autonoma ed attenta ha una presenza debole, purtroppo, almeno al momento, nell’agone in cui si giocano le “magnifiche sorti e progressive”di questo “secol superbo e sciocco”, per dirla con Giacomo Leopardi. *15
La nostra ipotesi di lavoro, lavoro duro e di lunga durata, è che un’alternativa reale allo sfrenato consumismo distruttivo ed autodistruttivo, risieda nella riappropriazione della naturalità del corpo, con il connesso piacere della sensorialità e dell’integrità del sentire e dell’esprimere, in forma congrua e coerente con l’ambiente, i propri sentimenti.
Il consumismo ed il mito del denaro sono un surrogato del piacere del corpo: il corpo “vivo e vibrante”, per dirla con Lowen, è il più efficace antidoto all’avvelenamento della cultura umana.
Consumare e produrre, anche il superfluo, non è un male quando non è coatto e debordante, quando il piacere è autentico, semplice e raffinato, non implementato dalle immagini inconsce e introiettate di un ingordo Narciso mai contento.
Il corpo “vivo e vibrante”è il principale antidoto al veleno che inquina il modo di consumare ed il modo di vivere del mondo occidentale e sempre più anche di quello dei cosiddetti paesi emergenti.
Certo con tutte le significative differenze, che non è qui il caso di analizzare.
Senza un lavoro capillare di rialfabetizzazione sensoriale, emozionale, cognitiva e comportamentale, non resta che l’utopia dei sermoni, che vengono come sempre da mille parti, soprattutto rivolti ai più giovani, e se ne vanno in breve dappertutto senza lasciare un segno costruttivo e consistente.
L’ipotesi semplice e chiara, ma tutta da inventare sul piano concreto-pratico, informativo e formativo, è che il piacere del corpo possa riprendere il suo posto usurpato dal piacere di piacere.
L’umanesimo rinascimentale è riuscito ad attraversare i secoli, a passare attraverso mille sacrifici in mezzo alle varie superstizioni dominanti, verso l’orizzonte dell’immanenza e dell’integrità del corpo umano.
Oggi l’Inquisizione si è fatta più sagace ed incalzante, nella subdola veste seducente del consumismo pavoneggiante, ma la prigione è la stessa di sempre: il sacrificio del naturale piacere del corpo e della sua natura animale e spirituale.
Servirà un nuovo movimento: di liberazione culturale e strutturale.
Probabilmente mai come oggi i tempi sono propizi: la grave crisi strutturale del modo di produrre e di consumare offre uno scenario in cui l’angoscia di perdere i beni materiali di un tempo può essere superata con la riscoperta del piacere del semplice e del naturale, in un’ottica che privilegi la qualità in luogo della quantità.

 

 

5 - La rivoluzione del linguaggio

 

Servirà anche una rivoluzione, quasi copernicana, nella comunicazione con i giovani, se vogliamo davvero farci sentire dal loro sentire.
L’esperienza dice che, con i bambini, piegarsi sulle ginocchia e mettersi al loro livello è una modalità di comunicazione che stabilisce un contatto profondo di attenzione e fiducia: ugualmente, in senso figurato, succede
con i giovani.
Dobbiamo metterci al loro livello, partire dalla posizione che hanno loro.
L’ABC di questo nuovo linguaggio dovrà essere naturalmente costruito sul campo: il campo della relazione reale.
Probabilmente non potranno mancare alcune cose, nel campionario delle nostre risorse.
Innanzi tutto darsi del tu: un tu reciproco, non quello unidirezionale, purtroppo sempre più tradizionale.
Con il tu unidirezionale o anche con il lei reciproco, la distanza diventa tutta un’altra, rispetto a quella che desideriamo per la costruzione di una relazione che sia nuova.
L’esperienza con gli adolescenti, nella scuola e nei contesti strutturati di tipo formativo, dice che l’assunto secondo il quale per questa via si perderebbe il senso ed il rispetto dei diversi ruoli, tra adolescente e adulto e tra allievo e maestro, è solo uno spauracchio il più delle volte senza senso e senza alcun riscontro.
Se non per chi si attiene ad un assunto, tutto da dimostrare, che sarebbe meglio non essere implicati in dinamiche emozionali troppo ravvicinate o per chi ha paura del contatto più semplice e diretto ed ha bisogno di stare dietro a un ruolo, per non scoprirsi nelle insicurezze che, più o meno inconsciamente, avverte dentro.
E’ dunque più spesso un problema dell’adulto e non del giovane.
Quello che noi intendiamo è andare in senso opposto, se vogliamo uscire dalla trappola di un addestramento che produce i risultati che abbiamo sotto gli occhi.
Farsi vedere, quindi, molto da vicino, testimoniare la nostra esperienza con autenticità.
Dire la verità, non “tutta la verità, nient’altro che la verità, lo giuro”, ma stare saldamente su quel terreno: insomma nella sostanza “non
raccontare palle”.
Perché le palle prima o poi si sgonfiano, e con i giovani, che sono grandi esperti del mestiere di difendersi nascondendo le loro verità, scoppiano ancora prima di sgonfiarsi.
E sì affloscia, spesso in un momento, la loro fiducia e resta solo il bisogno di aiuto, che spesso è troppo poco per ottenere il nostro risultato: la sinergia semplice e sincera con cui metter in pista quel percorso, non facile e non breve, di rialfabetizzazione.
Su questa via non dovremo avere paura di sbagliare e soprattutto di mostrare gli errori che certamente più volte compieremo: la condivisione dell’errore è matrice di grande avvicinamento e fiducia, oltre che una notevole
occasione di analisi dei nodi che ingarbugliano i fatti della vita.
Benvenuto l’errore!
I ragazzi ed i giovani sbagliano continuamente e necessariamente.
Con il riconoscimento dei nostri errori, entriamo con loro materialmente in un’esperienza che ci accomuna: sarà un momento di condivisione assai prezioso.
Allora sì che potremo allargarci e vivere, con la sintonia che accalora il percorso, altri momenti di costruzione di nuovi linguaggi: ridere, divertirsi, “cazzeggiare”, usare con prudenza e “pudicizia” il loro gergo ed introdurre
frammenti del nostro di quando avevamo la loro età.
Il tutto poi condito con la capacità di ascoltare.
Ascoltare veramente, senza interrompere il flusso della loro espressione, se non quando sia veramente il caso di porre dei limiti.
Ascoltare senza sentenziare e giudicare: una competenza preziosa e raffinata, alquanto rara all’interno del bagaglio, spesso purtroppo piuttosto polveroso e consumato, dell’educazione dominante.

 

 

6 - Il gruppo in gioco

 

Il linguaggio dovrà essere soprattutto viscerale: bando alle ciance che imparano già a scuola; sempre con tutto il rispetto per le mille esperienze positive, che non di rado si possono trovare nella scuola, ancorché troppo spesso arretrata e a volte decadente.
Nel lavoro di rialfabetizzazione propriocettiva, non si tratterà dunque di insegnare quali muscoli e quali nervi essi dovranno imparare a riconoscere: bisognerà che li possano sentire nel movimento e nell’espressione che verrà dalla spontaneità del corpo in gioco.
Si tratterà di aiutarli a tornare ai vecchi tempi, quando nella prima infanzia sapevano giocare con il corpo: sarà come incontrare un vecchio amico.
Il corpo in gioco, dicevamo nel titolo.
Riflette anche questo significato: giocare nuovamente con il corpo, metterlo ancora in gioco per il gioco animale- esperienziale, che dà vita alla vita.
Il gruppo è il contenitore ottimale per un lavoro di questo tipo: offre il confronto, lo stimolo, l’emulazione, la solidarietà.
Certo il colloquio individuale è un momento di grande rilevanza per l’elaborazione, ma l’energia del gruppo fornisce l’humus in cui è possibile praticare dal vivo l’esperienza, simulando la vita reale con un’approssimazione tale da rendere il vissuto il più delle volte assai significativo ed emblematico.
Non gruppi e sequenze di esercizi, per quanto essi si siano dimostrati di grande utilità per gli adulti: con i ragazzi ed i giovani sarà meglio passare per l’espressione corporea e per il gioco dell’improvvisazione.
Ogni conduttore ci metterà del suo, attingendo al talento di sapere stare in connessione con l’energia dei giovani.
Bisognerà però certamente vigilare che l’espressione del corpo, l’improvvisazione, il gioco, il canto, il rap ed ogni situazione di movimento creativo, non perdano l’indirizzo percettivo-propriocettivo, che potrebbe venire divorato dall’ingordigia del “fare lo spettacolo”.
L’abitudine è dura a morire: vuole cercare il piacere nel guardarsi e nel farsi guardare.
Dovremo fare lavorare il dio Narciso come un’umile e piccola formica, perché possa davvero cantare la cicala matura della vita.

 

 

NOTE

 

*1 -Internet può rappresentare un mondo creativo o un ambito dispersivo; un gioco virtuale è in grado di arricchire l’immaginazione, di sviluppare spunti creativi o favorire modalità passivizzanti, di dipendenza, l’esatto contrario di una libertà espressiva. Non è in discussione lo strumento in sé, ma eventualmente l’uso che se ne fa e da chi.

Da intervista a Marcello Cesa-Bianchi di Raffaele Felaco presidente Ordine Psicologi Regione Campania, in La professione di Psicologo, n.3 dicembre 2011.

 

*2 -Herbert. Marcuse, “L’uomo a una dimensione”, G. Einaudi Editore, 1967 Torino.

 

*3 -Alexander Lowen, “Il narcisismo – l’identità rinnegata”, Feltrinelli Editore, 1985 Milano, pagg. 9-10.

 

*4 -Intervista riportata da Repubblica il 13.03.11.

 

*5 -James Roberson "Men and Masculinities in Contemporary Japan”

 

*6 -Tamaki Saito, Direttore del servizio medico Sofukai Sasaki Hospital - Psychomedia, Intervista di Claudia

Pierdominici 12.4.2008

 

*7 -Carla Ricci "Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione" col ontributo di Antonio Piotti, Fanco Angeli

-Pietropolli Charmet Gustavo "Uccidersi. Il tentativo di suicidio in adolescenza" R.Cortina

 

*8 -Zygmunt Baumann, "Vite che non possiamo permetterci" Laterza

-Zygmunt Baumann, "Voglia di comunità" Laterza

-Zygmunt Baumann, da Repubblica, Il trionfo dell'esibizionismo nell'era dei socia network, Conferenza a

Roma, Auditorium Parco della Musica, 9.4.2011

-Zygmunt Baumann, "La società individualizzata" Mulino Edizioni

 

*9 -Robin Dunbar, "Dalla nascita del linguaggio alla babele delle lingue" Longanesi

 

*10 -Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, a cura diT.De Mauro, Laterza, [ 1967], 2009.

 

*11 -Jacques Le Goff, L'uomo medioevale, Laterza 2006

 

*12 -Alexander.Lowen, Bioenergeticam, Feltrinelli, 1983, pagg 124 - 125

 

*13 - Il corsivo sono commenti dello scrivente

 

*14-L'homme y passe à travers des forêts de symboles/qui l'observent avec des regards familiers. (L'uomo non agisce sulla natura, ma vi passa attraverso una foresta di simboli che l'osservano con sguardi familiari) Correspondances ( Les Fleurs du Mal) Charles Baudelaire

 

*15 -Giacomo Leopardi, I Canti, 34, La ginestra

 

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