L’Arte ci accompagna e segna da sempre aspetti cruciali della nostra vita con lungimiranza. Dà voce al pensiero dominante ma anche spazio a ciò che non si può dire, che dai margini affiora…
L’arte oggi non ha un punto fermo, anzi per usare le parole di Salvatore Genovese, attento testimone dell’arte contemporanea, va avanti e indietro: è in una posizione nomade, la cui etimologia rimanda al camminare ma anche allo sbagliare.
Ecco il primo rimando alla rete. Muovendoci con il nostro mouse ci spostiamo e siamo sospinti a farlo, in territori vasti e sconfinati, come nomadi.
Uno dei fenomeni artistici che si addentra in alcuni aspetti della vita attuale è stato il POST HUMAN.
 
Lo sfondo su cui è sorto questo movimento è quello descritto da Jeffrey Deicht, critico d’arte ed economista, in cui vacillano modelli politici e sociali, crolla il comunismo e la fede nel capitalismo. In questo scenario trionfano due nuovi protagonisti: la rete e le biotecnologie.
Il termine post umano è stato coniato nel ’92, il tema centrale era quello delle identità cangianti. Il corpo era inteso come limite, confine biologico in cui l’io poteva frammentarsi e ricostruirsi.
La pecora Dolly era ancora fantascienza ma l’arte l’aveva già intuita.
Internet e la specializzazione delle scienze non ci avvicinano alla possibilità di un’unificazione della conoscenza ma aprono, secondo Genovese, alla possibilità di un’unione anarchica e provvisoria.
In rete assistiamo alla proliferazione di sistemi asistematici.
Siamo stati abituati a mettere in ordine, ma sappiamo che, con internet e i tempi accelerati, l’ordine di oggi è una costruzione provvisoria, potrebbe non funzionare più domani. Jofrey Deicht afferma che questo ci induce a “visioni più intuitive, a un modo di pensare più irrazionale che può rappresentare un approccio adatto a un mondo che ha perso la fede utopistica nelle soluzioni razionali”.
In rete c’è il concetto dell’accumulo: si accumulano le cose stratificandole, non potendole organizzare per gerarchia. Tutto è possibile, al di là dello spazio, al di là del tempo, al di là delle categorie su cui normalmente si costruisce la vita.
Gli artisti di Post Human operano in questo contesto.
Consideriamo Mark Quinn, artista britannico che ha creato la scultura della sua testa usando il suo stesso sangue congelato, descritta come “momento congelato in supporto vitale”. L’opera è mantenuta con cautela in un’unità di refrigerazione, ricordando allo spettatore la fragilità dell’esistenza. Anche i disegni dello stesso Quinn trattano la relazione spesso distaccata che viviamo con i nostri corpi.
Gunther Von Haegens ha realizzato molte mostre, è artista ed anche medico e ha individuato una tecnica per la conservazione dei tessuti del corpo, plastificandoli: lavorando su cadaveri veri, realizza installazioni che considera una sorta di prosecuzione dopo la morte.
Così, seguendo un criterio tipico della rete, passiamo per analogia ad un automa meccanizzato di legno del 1700.
L’idea di un corpo artificiale che agisce è propria del 18esimo secolo: i movimenti erano ottenuti per mezzo di soffietti, manovelle, perni, ruote dentate, canne collegate tra loro da una rete intricata di molle, aste cerniere, leve.
Oggi il dott. Hiroscilshiguro ha il suo doppio: l’androide Geminoid.
La cosa interessante è che si muove da solo.
L’artista Hans Bellmer invece cerca la perfezione delle parti femminili scorporate e assemblate: corpi di bambole deformate in infinite pose grottesche e plastiche.
Alex Sanswellklinski preferisce riprendere le pose delle riviste erotiche riducendo il corpo a bambola o manichino asessuato.
Marcel Antunez ha giocato con il proprio corpo con “Epizoo” 1994.
L’opera si basa su una struttura di tiranti che si attaccano alle pareti del corpo, tiranti che non possono essere controllati dall’artista ma vengono azionati dal pubblico. Racconta che è fastidioso e doloroso, la mente vorrebbe opporsi ma la meccanica dell’installazione non glielo permette e lo costringe a fare altri movimenti, come se fosse mosso da qualcosa di esterno a lui.
Genovese inserisce anche Valeria Lukayova in questa panoramica, considerata la Barbie vivente, l’opera d’arte è lei stessa, se si considerano le ore di trucco e le operazioni che ha fatto per far diventare il suo corpo innaturale.
Charles Ray ha creato una famiglia, facendo mamma, papà, bambino, tutti uguali: la sua opera altera le proporzioni della realtà, ma anche nella rete gerarchie e proporzioni sono messe in discussione.
Stelarc, artista australiano, si è fatto inserire un orecchio senziente sul proprio braccio. La prima volta c’è stata infezione. Il secondo intervento ha funzionato.
La sua ricerca sul corpo, orientata alla dimostrazione della sua obsolescenza e vuotezza, è andata in direzione dell’uso delle protesi, della robotica, di internet, della realtà virtuale, dell’intelligenza e della biotecnologia per dichiarare l’estensibilità del corpo con la tecnologia come requisito della sua evoluzione.
Mickey Kelley invece è un artista che fonde insieme uomini e animali.
Zomby boy è il fotomodello più tatuato del mondo e l’artista Marc Quinn gli fa una scultura. Quinn affronta l’arte che si confronta con un’umanità che supera le barriere biologiche e naturali.
Lascerei la valutazione artistica di queste opere alla critica d’arte per spostarmi su un altro piano: quello esistenziale.
Mi ha colpito e in alcuni casi scioccato il particolare utilizzo del corpo come mezzo per veicolare le propria arte. Quest’utilizzo non è stato fatto con una modalità espressiva, teatrale, rituale o danzante, ma attraverso scorporamenti, con opere che rappresentano dissezioni, mutilazioni o parti di sostanze corporee o parti morte di corpi, attraverso cambiamenti di aspetto ottenuti con bisturi che tagliano e modificano, attraverso inserzioni di parti meccaniche o animali.
Come se il corpo fosse un oggetto da manipolare trasformare a prescindere da quello che questo corpo prova, da quello che questo corpo è.
Alcune pratiche oggi comuni, che gli artisti hanno amplificato ed esasperato, come i tatuaggi o i piersing, mutuate dalle ritualità dei popoli che li hanno inventati, sono riprese e rivisitate con tutt’altri intenti che quelli originari.
I cambiamenti di costume cui stiamo andando incontro, si notano osservando i messaggi pubblicitari: si vedono giovani e meno giovani, ridisegnarsi con trucchi permanenti o semipermanenti, si diffondono gli integratori alimentari più svariati e l’uso di apparecchiature elettroniche per scolpire gli addominali o l’acquisto di indumenti variamente contenitivi per eliminare “inestetismi” fisici, lame di bisturi per sconfiggere l’invecchiamento o l’iniezione di sostanze tra i tessuti.
Fino ad arrivare al giovane coreano che assomiglia al dittatore attualmente al potere, che si sottopone a diversi interventi chirurgici perché, dice ,“ voglio diventare anch’io come lui”, si veste come lui e va in giro con finte guardie del corpo: la gente lo riconosce e lo tratta come se fosse il vero dittatore.
Sono fenomeni da capire, da esplorare. Ma come?
Mi sento vicina all’idea di T. Zeldin, riguardo alla conversazione, e questo blog potrebbe essere una porta al dialogo.
T. Zeldin, in opposizione a quella che potremmo definire come una vera e propria cultura del giudizio, pensa alla conversazione come a una via d’uscita: non come una forma di appiattimento della propria intelligenza, né come proliferazione di chiacchiere, ma come irrobustimento delle capacità analitiche.
Rinunciare a giudicare non significa rinunciare al discernimento e alle distinzioni, quanto piuttosto ampliare la propria capacità di ascoltare dunque la propria consapevolezza. Questo non implica accettare e dare lo stesso valore a tutto, come talvolta la rete ci fa credere, ma acquisire una fermezza che non ceda alla rabbia e al desiderio di classificare sempre i nostri interlocutori.
Questo introduce un altro concetto chiave proposto da Zeldin, quello della curiosità. Coltivare la curiosità per lui vuol dire mettere in gioco i propri pregiudizi, indagare più a fondo, per diventare, alla fine, più critici.
Marco Belpoliti rileva che l’oggetto dell’azione di questi artisti è la disidentificazione del corpo, la sua trasmigrazione verso forme o espressioni in cui il genere e l’anatomia non definiscono più l’essere umano, la sua singolarità e appartenenza. L’arte non anticipa questo movimento, lo mima, lo forma direttamente in forme eclatanti.
Il messaggio di questi artisti a modo proprio esprime un’umanità spesso inquietante, dolente, artificiosa, smarrita, raramente giocosa e proiettata in un mondo frammentato.
Resta da vedere cosa potremmo imparare e intuire di quanto il futuro ci riserva tenendo d’occhio gli artisti.
Sapendo con Deicht che i progressi tecnologici ci costringeranno a sviluppare un nuovo codice etico, che ci orienti nel comportamento di fronte a scelte enormemente importanti, in termini di alienazione genetica e ampliamento computerizzato delle facoltà cerebrali.
Potremmo avviare un dialogo che apra a domande.
A quali bisogni rispondono questi artisti?
Perché queste opere ci inquietano?
Mostrano qualcosa che forse ha a che fare con la nostra società e il nostro stile di vita?
E molte altre.
Al tempo stesso potremmo andare a vedere cosa altri artisti stanno creando, su versanti diversi da quelli evidenziati da Post Human, osservando anche quelli che stanno muovendosi nella direzione di una riunione non solo col nostro corpo vulnerabile, ma anche con il mondo naturale.
Nadia Lenarduzzi