L’articolo del dott Torta “Psicologi in vetrina”, affronta gli effetti e le conseguenze del riverbero della Rete e dei social network sulle relazioni degli psicologi con i loro clienti e apre un’interessante prospettiva: colgo il suo invito ad una osservazione e discussione del fenomeno.
Desidero fare una premessa.
La presenza dei nostri profili su Facebook, che sembra riguardare aspetti consueti della nostra vita, in realtà è un fenomeno estremamente recente rispetto alle modalità relazionali tra le persone, che noi umani abbiamo elaborato e che ci hanno accompagnato nel corso della nostro viaggio sulla terra dalla nostra comparsa a…una trentina d’anni fa.
Il lavoro dello psicologo, inoltre, che si può addentrare come sottolinea l’autore dell’ articolo fino alle “ ferite dell’anima”, è delicato, e va a toccare aspetti complessi e non sempre consci del nostro essere.
Quindi ci muoviamo su un terreno di discussione assai inedito e difficile.
Il mio contributo alla ricerca in questo ambito riguarda alcune domande, come fossero piste che ho seguito nelle stesura delle righe che seguono.
La prima è questa: se è vero che le immagini ancor più delle parole possono avere un impatto emozionale imprevedibile per i clienti in terapia, questo effetto può valere anche per gli psicologi che utilizzando facebook si imbattano in “materiale delicato e immagini svolazzanti senza tempo” dei loro clienti?
La seconda è: l’impatto di questo serbatoio multiforme che sono i profili in rete riguarda solo l’aspetto emozionale, preso in considerazione dal Dott. Freddy Torta oppure anche la sfera cognitiva?
A questo proposito ho trovato interessante la lettura del testo di J Bruner “La mente a più dimensioni”, in cui lo studioso analizza il processo di costruzione del sapere e rileva come la sorpresa sia la risposta alla mancata conferma di una presupposizione.
Se i dati sensoriali contraddicono le attese, il nostro sistema entra in allarme, la sorpresa genera anche questo. Le soglie percettive sono potentemente condizionate dalle nostre aspettative. Quanto più un evento è atteso tanto più ci riesce facile coglierlo. Ciò che gli esseri umani fanno, quando percepiscono qualcosa, è prendere tutti quei frammenti che possono estrarre dall’insieme degli stimoli ricevuti e che collimano con le attese, e leggere il resto sulla scorta dei modelli che hanno in mente. Conosciamo categorizzando tipi di persone, tipi di problemi, tipi di esistenze e troppa complessità potrebbe non facilitare il processo di assimilazione. Così fanno anche i clienti che vanno in terapia: cercano di capire con chi hanno a che fare e in questo meccanismo di categorizzazione e conoscenza oggi si deve aggiungere la rete con i social network che funzionano a modo loro.
In Internet quello che ero e che sono e che desidero o penso, galleggia senza tempo e senza possibilità di cancellazione e di evoluzione; tutto ha lo stesso peso, quello che ero prima e pensavo prima e quello che sono ora sono parimenti presenti e vivi nelle immagini e pensieri affidati a Facebook.
Ciò che in un contingente momento della nostra vita avevamo fatto o detto, veniva prima affidato a una memoria allenata da millenni a fare il suo lavoro di oblio e immagazzinamento selettivo al servizio della sopravvivenza.
Nell’era di Facebook che destino ha tutto questo materiale, immortalato da foto che ritraggono esperienze fatte in un determinato spazio/tempo che le contestualizzava e relativizzava? Lo spazio e il tempo cosa diventano nella rete?
Non diventano un po’ come l’inconscio? Tutto galleggia o temporaneamente si appoggia sul fondo per riemergere quando meno ce lo aspettiamo, anche quando ce lo siamo o saremmo voluti dimenticare?….
Consideriamo inoltre il fenomeno percettivo del sincretismo, modalità conoscitiva del nostro sistema presente nella prima infanzia(e non solo), per cui un bambino piccolo, abituato a vedere il papà a casa magari in pantofole vedendolo un giorno al lavoro in ospedale vestito di verde con guanti in lattice cappellino e copriscarpe di plastica non lo riconosce. Questo mancato riconoscimento comporterà un momento di confusione, delusione: è difficile accomodare e integrare i ruoli multipli che le persone possono assumere, specialmente se il legame che si ha con loro è di tipo affettivo. Non può forse capitare anche tra cliente e terapeuta nella rete di Facebook?
Controllare i propri profili e i dati in possesso della rete e dei social network sembra essere meno facile di quanto ci aspettassimo, forse vuol dire doversi allenare a non anteporre aspettative alla propria coscienza.
Concluderei osservando che, come rileva il filosofo Vito Mancuso, quando le nostre vite non possono essere immaginate senza il cellulare o Facebook e c’è l’esigenza di essere sempre connessi, non c’è più la dimensione del silenzio, del distacco, necessaria per l’elaborazione critica.
Aggiungerei in questo caso, che la presenza di una dimensione di silenzio sia necessaria per la costruzione di una conoscenza dell’Altro, e quindi anche del terapeuta, sufficientemente solida da sopportare e promuovere il dissenso e la complessità, senza la rottura della relazione.