L'argomento è affascinante ed intrigante, rimescola un po' le viscere e fa venire l'acquolina in bocca: "ma hai visto cosa ha pubblicato il collega Tizio o la collega Taldeitali? Come è possibile mettersi in mostra cosi!"
Il mio lato morboso e voyeuristico si nutre avidamente di tutto quello che appare sui social network, e a seconda dei casi butta fuori disprezzo derisione invidia rabbia, insomma attinge a tutto il repertorio dei sentimenti negativi di cui siamo in possesso.
Oppure sono stimolato dalle informazioni e dalle occasioni di aggiornamento e sento ammirazione curiosità desiderio di emulazione.
Qualche volta mi annoio, ma il più delle volte, al pensiero di entrare su FB, una vocina dentro di me dice: "non entrarci, è spazzatura! lo sai che dopo ti viene la nausea".
Mi sono chiesto perché e ho avuto qualche risposta che mi piace condividere, anche per proporre un punto di osservazione da una prospettiva diversa da quella da cui Freddy Torta è partito. Se Freddy parte da come potrebbe sentirsi un cliente se..., io parto da come può sentirsi un terapeuta se...
Io provo a scrivere su come mi potrei sentire leggendo i "post" di clienti a cui "ho dato amicizia su FB". Parlo al condizionale perché le riflessioni che seguono mi hanno orientato a decidere di NON "dare amicizia" ai clienti in psicoterapia (oltre che agli allievi dei training in cui insegno).
Prima considerazione: l'impatto emotivo, la sensazione è forte e, in pochi minuti, ho la possibilità di avere uno spaccato di quello che succede nella quotidianità di alcuni clienti, e mi manca il tempo di metabolizzarla. Dove colloco le mie sensazioni da "post"? Ne parlo nella prossima seduta? O nel qui ed ora via chat?
Sento che la velocità dei social network non è compatibile con il mio metabolismo degli eventi e delle sensazioni e delle emozioni collegate ad essi.
 
Seconda considerazione: il merito delle informazioni contenute nei post non è meno importante. Posso venire a conoscenza di eventi della vita di un cliente che io ritengo rilevanti ai fini della terapia ma che lui ha deciso non essere interessanti o rilevanti. Faccio finta di niente e elaboro il mio sentire nella mia supervisione? Oppure chiedo spiegazioni al cliente della scoperta che ho fatto sul suo conto?
Terza e ultima considerazione, per il momento. Un evento ipotetico: tra i post che il mio cliente pubblica ce n'è uno che attira la mia attenzione. Taggato da un amico lo vedo in una foto mentre è sulle piste a sciare, proprio quel giorno che mi aveva avvertito all'ultimo momento che non sarebbe venuto alla seduta perché non stava bene!
Registro i miei sentimenti, forse irritazione, o un senso di delusione o di tradimento o quant'altro, molto materiale insomma per una seduta di supervisione.
Al momento mantengo la mia scelta di "NON dare amicizia", preferisco non guardare dalla vetrina Facebook quello che accade nella vita dei miei clienti.
Ma ricordo anche che fino a 15 anni fa non avevo un telefono cellulare e le comunicazioni con i clienti, al di fuori della seduta, avvenivano solamente sul telefono fisso (magari lasciando un messaggio in segreteria telefonica) mentre ormai da alcuni anni è diventata prassi comune anche per me far passare una buona fetta delle comunicazioni con i clienti via mail, SMS o Whatsapp. E mi rendo conto di quante frazioni del mio tempo libero utilizzo per questi modi di comunicare, di come piano piano, quasi senza accorgermene, le interazioni con i clienti al di fuori della seduta impegnano sempre più tempo ed energia, permetto che invadano il mio tempo, e il più delle volte suscitano sensazioni ed emozioni che rimangono spesso sotto la coscienza. E allora mi chiedo con una certa curiosità "chissà tra 5-10 anni cosa dirò di tutto questo...."