Qualche tempo fa ho vissuto un’esperienza che mi ha condotto ad alcune riflessioni aperte che desidero riportare in queste righe. E’ un tentativo per provare a tradurre alcuni disagi che più o meno silenziosamente potrebbero coesistere con il vivere immersi nel “nuovo mondo” della comunicazione digitale. Ho tentato di navigare nell’immensità del tema riportando l’esperienza nel dettaglio per circoscrivere l’argomento, trovare una modalità espressiva e radicarlo nel reale.
Uno sforzo teso principalmente a individuare alcune domande appropriate.
Un giorno sono uscita di casa dimenticando il telefono e non appena me ne sono accorta la primissima sensazione che ho provato è stata molto vicina ad uno stato di inquietudine. Solo successivamente ho potuto fare mente locale realizzando che non avevo appuntamenti telefonici, pertanto quella sensazione non aveva nessuna base reale, mentre si apriva la possibilità di accettarla e contenerla tramite semplici rassicurazioni cognitive come questa, evitandomi almeno nel frangente immediato la tortura della “ giostra dei perché”...
Al contrario man mano che procedevo con le consuete attività potevo percepire un maggior coinvolgimento, come se l’azione necessaria del momento, per quanto quotidiana e rutinaria, acquisisse più sapore riappropriandosi della sua naturale qualità corporea.
Quando sono rientrata a casa ho trovato una “chiamata persa” e la mia attenzione si è allora rivolta a quella definizione che mi è apparsa strana e che fino ad allora invece mi era sembrata “normale”: persa in che senso?
Un linguaggio culturale, entrato in uso ordinario, che forse in qualche modo sembra invitare noi utenti a vivere attaccati al cellulare altrimenti “ci perdiamo qualcosa”? Non saprei... Sapevo solo che in qualche modo quell’espressione stonava internamente con una dimensione vitale cosi piacevole.
Successivamente ricordo di essermi mossa in modo diverso dal solito, così mi sono seduta cercando una comodità, per poi attivarmi per lo scambio telefonico che nel frattempo acquistava gusto e intensità.
Alla fine mi sono ritrovata confusa, e nel medesimo tempo più presente e “attenta” rispetto alla consueta modalità con la quale facevo fronte al vortice del quotidiano.
Leggere il passaggio di A. Lowen di seguito riportato, ha come restituito un po’ di parole e significato al mio vissuto, integrandolo in una dimensione che cominciava ad avere un senso.
“Una persona è sovraeccitata quando il numero e il genere di impressioni che riceve dal mondo sono superiori alla sua capacità di risposta(…) la sovraeccitazione porta la persona fuori dal corpo, disturbandone ritmi ed armonie interne.(…) Inoltre la sovraeccitazione è causata da un’offerta di eccitazione falsa, un’eccitazione quindi che non ha nessuna prospettiva di scaricarsi nel piacere.”[1]
Questo passaggio di Lowen si riferisce in particolare all’impatto della pubblicità, evidenziando il risultato del vivere immersi nella seduzione dei suoi continui inviti con relative promesse implicite che “qualcosa di straordinario accadrà”.
Prosegue le sue argomentazioni rilevando che l’unica soluzione disponibile all’individuo, sovraeccitato dal bombardamento di stimoli, è sentire di meno e addormentare i sensi.
Il contesto di sviluppo tecnologico nel quale vengono scritte queste riflessioni non comprende ancora la capillare presenza del personal computer ormai quasi in ogni abitazione. Dopo un paio d’ore “di seduta” di fronte al nostro computer potevamo terminare dedicandoci magari un momento di ascolto: la pesantezza della testa, i sensi un po’ offuscati, il bisogno di prendere aria…
Forse allora il corpo non era nella rete e restituiva i suoi bisogni reali attraverso sensi e sensazioni?
Mi sorge quindi spontanea un’ulteriore domanda, parlando molto genericamente e forse impropriamente della “cultura occidentale” in una dimensione di vita ordinaria come quella attuale: oggi che abbiamo l’intero mondo dentro un monitor e dentro la tasca della giacca, perennemente “connessi” con qualcuno o qualcosa, quasi sempre “incorporei” e di fronte ad uno schermo che minuto per minuto ci assistite con informazioni, ricordi, immagini, o ci fornisce qualsiasi altro materiale che può richiamare ed evocare tutta la gamma di emozioni e sensazioni umane, forse il termine sovraeccitazione non è più sufficiente?
Propongo questo quesito poiché “l’apparecchio” non sembra più uno strumento al nostro servizio ma piuttosto, per come spesso viene utilizzato e per sua stessa natura, una sorta di generatore di con-fusione tra me, persona in carne ed ossa, e la macchina (monitor/mondo).
Questa con-fusione mi fu chiara dopo aver visto un documento su Steve Jobs[2], che mi ha suggerito un processo di cancellazione di confini che conduce alla definizione già nota di “apparecchi sostitutivi dell’affettività”.
Mentre guardavo questa parte della sua storia sono rimasta colpita dalla solitudine dell’uomo Steve (a dire di alcune persone a lui vicine) e dal suo reale amore per il lavoro. Jobs si occupò personalmente della pubblicità promozionale del suo nuovo prodotto rivoluzionario, rifiutando lo slogan proposto dal suo stesso team che recitava “ l’I phone è una parte di te ” e, con la determinazione che gli era propria, pretese lo slogan “l’I phone sei Tu”: si scrive in effetti tutto attaccato (IPHONE). Abdicazione e impegno totale dunque, che hanno avuto una detonante risposta in tutto il pianeta, mi verrebbe da dire quasi come se la sua solitudine e le sue “soluzioni” avessero risuonato con quella di tanti altri
Forse qualcuno aveva qualche frammento di risposta già nel 1979: “Ogni società cerca di risolvere la fase critica dell’infanzia – il trauma della separazione dalla madre, la paura dell’abbandono, il dolore di competere con altri per la conquista dell’amore materno – a suo modo, e la maniera in cui vengono risolti questi eventi psichici produce una caratteristica forma di personalità, una particolare deformazione psicologica, tramite la quale l’individuo si rassegna ad una deprivazione istintuale e si adegua alle esigenze del vivere sociale”.[3]
Tornando alle parole di Lowen, dal momento che sappiamo che sentire di più significa essere più vitali, dobbiamo forse concludere che per sopravvivere ed adattarci a questa proposta di cultura di massa dobbiamo sentire di meno e morire un po’ ogni giorno?
Anche secondo Alexander Lowen l’uomo di massa rinuncia alla sua individualità, al suo esserci nel mondo in modo originale e personale (sentendo) per “adeguarsi al vivere sociale” (non sentendo) e lo farà per rincorrere fumose promesse di felicità, potere, controllo e prestigio talvolta senza saperlo: “La nostra paura della vita si rivela nel nostro continuo affaccendarci per non sentire: corriamo per non affrontare noi stessi, ci diamo ai liquori o alle droghe per non percepire il nostro essere. Poiché abbiamo paura della vita, cerchiamo di controllarla o di dominarla. Crediamo che essere trasportati dalle emozioni sia nocivo o pericoloso. Ammiriamo le persone calme, che agiscono senza emozionarsi. Il nostro eroe è James Bond, agente segreto 007”[4] .
Il bombardamento di stimoli può portare ad una condizione di assenza totale o parziale di armonia di processi mentali, trasformandoli in un flusso di pensieri accellerati, contrapposti e scomposti?
Può questa condizione diventare terreno fertile di uno stato di stress permanente, a sua volta ancora terreno fertile per altre tipologie di problematiche emozionali indotte dal vivere in una realtà virtuale che non offre confini?
Quel distacco “dall’apparecchio” che ho raccontato mi aveva permesso di realizzare l’esistenza di una sorta di “stato di allerta” quasi permanente, in sottofondo, che fino a quel momento non avevo sentito, e di concludere che mi ritrovavo in una condizione di stress senza esserne consapevole e senza che ci fossero degli stressor “fisici” individuabili e ragionevoli, rispetto alla mia soglia personale di tolleranza fino a quel momento conosciuta. E quella bussola chiamata corpo è sempre attenta e si esprime indicando un “qualche eccesso…da qualche parte”, eccesso che la mente da sola non sembra sempre in grado di individuare, perché veramente figlia di questa cultura.
Ho smesso di stupirmi e preoccuparmi dei recenti e frequenti mal di testa, nonché di considerarli una minaccia interna che non ci dovrebbe essere, o un intralcio a qualcosa. Piuttosto il naturale linguaggio del corpo, la cui intelligenza sembra forse una delle poche cose che veramente non possiede confini, mi si è chiarito ulteriormente.
A volte le risposte emergono restando fermi senza andarle a cercare…

[1] La depressione e il corpo, A. Lowen
[2] “ Steve Jobs: The Man in the Machine” documento di Alex Gibney, 2015
[3] La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive, C.Lash
[4]Paura di vivere, A.Lowen