I SENTIMENTI RIFIUTATI      
 
Far diventare grande il nostro cuore è lo scopo del viaggio: grande abbastanza da poter accogliere una persona intera con tutte le sue luci e le sue ombre, grande abbastanza da poterla amare per intero così com’è.
Questo richiederà di fare riaffiorare i nostri sentimenti più profondi, che abbiamo rifiutato e accantonato fin dall’infanzia, quando li abbiamo visti rifiutati dai nostri genitori.
Solo così si apriranno le porte del nostro cuore all’amore reale.
Altrimenti rimarrà in parte chiuso per non sentire il battito dei nostri sentimenti rifiutati e non sarà capace di abbracciare tutta la propria gioia dell’amore.
Allora, col cuore mezzo aperto e mezzo chiuso, saremo dominati da passioni che poco hanno a che fare con l’amore e molto col dolore, la rabbia e la paura e che ci porteranno più a star male che a vivere la gioia.
Siamo esseri umani e come tali siamo più animali di quanto non crediamo: dentro a un comportamento che appare volontario e razionale, c’è molto spesso la spinta più animale del nostro patrimonio viscerale, fatto di sentimenti che vivono nascosti e mascherati e chiedono di uscire dalla gabbia in cui li abbiamo segregati nel corso dell’infanzia.
Sono quei sentimenti che si sono mostrati appena nati, quando si sono mossi e si sono trovati la strada chiusa dai nostri genitori e, giorno dopo giorno, si sono intimiditi di fronte a una chiusura sempre uguale e gradualmente hanno perduto la loro forza di esprimersi come emozioni, che etimologicamente significa movimenti di sentimenti dall’interno verso l’esterno.
E noi bambini, teneri ed ignari dei nostri meccanismi di difesa, abbiamo cominciato a trattenerli e li abbiamo bloccati in un tratto del loro tragitto verso l’esterno.
E lì, come folle di popoli dispersi, sono rimasti fermi ad aspettare il momento opportuno per uscire, oppure sono tornati sulla strada verso l’interno, per nascondersi meglio e trovare più forza insieme agli altri per tentare di nuovo una sortita, mescolati e talvolta mascherati con altri sentimenti che avevano libero accesso alla coscienza.
Sono folle di popoli diversi, che dividono insieme territori che non erano i loro e che mescolano razze differenti, senza trovare un equilibrio nuovo che garantisca insieme vita e pace.
All’inizio erano sentimenti d’amore che cercavano solo il calore, la vicinanza, la tenerezza e si sono trovati invece troppo spesso abbandonati e soli, o in contatto con occhi troppo spenti, con voci troppo dure, con gesti ostili o freddi e, dopo aver provato e riprovato, si sono arresi e son tornati indietro verso le terre più nascoste del nostro corpo, lontano dai confini che ci uniscono agli altri.
Durante questa triste migrazione verso l’interno, si è avuta una trasformazione del popolo d’amore: molte orde ferite hanno imparato a coltivar la rabbia, mentre quelle che avevano incontrato direttamente le minacce più ostili, e a volte folli, quando avevano il semplice bisogno d’incontrare l’amore, sono fuggite negli angoli più bui del nostro territorio personale, dove hanno sede le paure totali e gli odi primordiali.                        
                        

 

 
IL PECCATO ORIGINALE

 

Nel corso della storia di tutti i nostri amori, c’è un filo che ci lega alla nostra preistoria.
E’ un filo aggrovigliato di amore e di dolore, di passione e di rabbia, di vergogna, paura e umiliazione, di voglia di potere e di vendetta.
Nel cuore del groviglio c’è il nodo del peccato originale di nostra madre e di nostro padre, e di tutto il contorno familiare e sociale.
E’ un peccato mortale contro l’amore appena nato che vuole nutrimento e calore, contatto e tenerezza, vicinanza continua e protezione, sostegno e approvazione.
E’ un peccato compiuto, quasi sempre, nella piena incoscienza e nella presunzione dell’amore, associato alla buona educazione.
E’ un peccato davvero originale, che si tramanda per via genitoriale da tempo immemorabile in quasi tutti i luoghi del nostro mondo e cova il male nella nostra cultura e nella nostra moderna società.
E’ il peccato, che diventa mortale, di non saper riconoscere e accettare i bisogni umani originari, semplici e chiari, meravigliosi e sani, di qualsiasi bambino appena nato.
E’ un peccato iniziato con l’ignoranza pressoché totale della storia della nostra vita prenatale, da parte della misera cultura che accomuna culture assai diverse.
Nel nostro viaggio in cerca dell’amore incontreremo nel nostro corpo molte strade interrotte da tempi ormai lontani, che aspettano di essere riaperte e rimesse in funzione per la circolazione di tutti i sentimenti, per ritrovare il flusso naturale di tutta l’energia vitale, che ha nel cuore un centro cardinale di tutto il movimento.
Per ripristinare il nostro movimento originario verso l’amore, dovremo riconoscere i sentimenti che avevamo negato e liberarli dal giogo che li ha tenuti oppressi, dovremo ritornare sui sentieri del cuore per trovare di nuovo i contatti perduti tra i sensi e i sentimenti e per raccogliere e rendere coscienti i nostri movimenti emozionali sperduti nell’inconscio.
E giorno dopo giorno, ritornando bambino, crescerà il nostro cuore e si farà più grande per l’amore.

 

 

   LA GRANDE MADRE E IL GRANDE PADRE

 

E cammina...cammina...torneranno i ricordi dell’infanzia, verranno a galla insieme ai sentimenti, rivivremo le scene che hanno fatto da matrice al nostro carattere.
Protagonisti accanto a noi bambini, rivedremo la grande madre e il grande padre: giganti buoni, giganti cattivi, condottieri dei nostri sentimenti, ponti levatoi verso l’ignoto, cavalieri splendenti senza macchia le cui gesta ci furono d’esempio, regina e re del regno dell’infanzia, le cui grida eran legge per noi sudditi pieni di stupore.
Nel viaggio incontreremo diversi personaggi della storia dei primi anni della nostra vita e ad ognuno di loro chiederemo di renderci qualcosa che gli abbiamo lasciato, ma per riprenderci intero il nostro io spezzato dovremo ritornare al castello fatato dove è nata la storia che sembrava una favola.
Rivedere la favola significa riprenderci la storia.
Nel viaggio rivedere ha un doppio senso: vedere di nuovo e vedere con occhi nuovi.
In entrambi i sensi ci faranno da guida i sentimenti.
Sarà il loro fluire, e non gli sforzi della mente, ad aprirci le porte del castello.
Nel viaggio rivedere è risentire: tornare dove abbiamo bloccato l’emozione, dove abbiamo lasciato una parte di noi e liberare tutto il sentimento e con esso riprenderci una parte della forza del nostro io.
Il viaggio è un riprendersi le forze primitive, perdute da qualche parte della nostra storia, in qualche parte del nostro corpo, dietro a qualche parte che sempre uguale giochiamo nella vita.
E se avremo un maestro che ci saprà aiutare a entrare nel dolore e a piangerlo di cuore e per intero, prenderemo la forza e la coscienza nascoste insieme alle nostre ferite in qualche stanza buia dell’infanzia e ridaremo fiato al nostro corpo e tutta l’energia che avremo liberata dal compito di fare la guardia corazzata alle ombre del castello.
E se avremo un maestro che ci saprà aiutare a entrare nella rabbia, nel suo movimento e nel suo grido e nelle nostre parole di veleno, troveremo l’antidoto efficace che ridona calore e morbidezza alle parti indurite del nostro cuore, dei nostri nervi e delle nostre membra, che torneranno al gioco della vita e dell’amore.
E se avremo un maestro che ci saprà aiutare a entrare dentro alle nostre paure, insediate nel corpo e spesso mascherate, e a attraversarle insieme con le tappe del nostro cammino, allenteremo il coro dei fantasmi che mangiano ogni giorno insieme a noi i frutti della vita.
Il dolore, la rabbia e la paura sono i fili sicuri e forti che ci portano al cuore, attraversando la rete delle mille apparenze di difesa con cui abbiamo cercato d’irretire l’amore, l’attenzione, l’accettazione dei nostri genitori.
E dentro a questa rete siam finiti noi stessi, si è impigliata la forza del nostro amore e della nostra vita.
Sciogliere i nostri nodi è il nostro viaggio, finché l’amore possa passare.
E con esso la vita, che non è vita senza amore.
                                                                                          
                                                         
LA PAURA DI SENTIRE

 

Sulla strada del lavoro corporeo e della meditazione, incontreremo le nostre paure.
La paura è un sentimento dalle mille facce, capace di insinuarsi in tutte le fessure della nostra coscienza, a livelli diversi di profondità: dalle paure più di superficie fino a quelle annegate nel mare viscerale.
Abbiamo conosciuto molteplici paure nell’infanzia: la paura di essere abbandonati da nostra madre, di rimanere soli (soprattutto di notte), la paura del buio, della morte, del diavolo e di altri personaggi minacciosi, la paura di essere sgridati e rifiutati dai nostri genitori e così via, lungo un itinerario personale diverso e pure simile per ognuno di noi.
Su questa strada abbiamo conosciuto molto presto la paura di esprimere e anche di sentire quei sentimenti che erano rifiutati dai nostri genitori: soprattutto la rabbia, il dolore e la paura stessa.
Per questo nel lavoro di riappropriazione della nostra capacità sensoriale, incontreremo prima o poi le tracce sensoriali dei sentimenti rifiutati.
Più o meno chiare, più o meno consistenti, esse ci faranno sobbalzare.
E’ dalle sensazioni di quei sentimenti che eravamo scappati!
Ritroveremo la paura di sentire le sensazioni interne del nostro corpo, che sono spesso collegate ai nostri sentimenti, anche se non ce ne accorgiamo più, dato che la cultura dominante insegna a sottovalutare e spesso anche a negare la presenza del nostro mondo interno viscerale.
Questa paura si potrà far sentire e far valere in molteplici modi: dalla semplice e assidua distrazione che ci porterà via da ogni sensazione, all’attacco di panico legato a un movimento viscerale (ad esempio del cuore), che ci farà tutto a un tratto congelare, annegando ogni nostra sensazione in un gorgo mentale.
In mezzo a questi estremi ognuno incontrerà le sue modalità di fuggire, del tutto inconsapevole, da quelle sensazioni che sono, e sono state, il materiale primo elementare attraverso il quale si possono mostrare alla nostra coscienza i sentimenti.

 

 

LA PAURA DEL MONDO OCCULTO

 

Coltivando la contemplazione e la meditazione, ritroveremo anche le paure collegate alle sensazioni percettive del mondo esterno, associate alle paure prime del mondo sconosciuto che abbiamo conosciuto nell’infanzia.
Ad esempio praticando la contemplazione e la meditazione nella notte, in particolare quando ci troveremo in un ambiente naturale, potremo incontrare la nostra antica paura dei rumori.
L’udito è il senso che ci consente di giungere laddove i nostri occhi non possono arrivare: insieme all’olfatto è lo strumento di controllo che di notte ci porta più lontano ed è quello che noi umani preferiamo, dato che lo sviluppo della nostra specie ha in buona parte sacrificato il potere olfattivo, che pure sopravvive nel cosiddetto fiuto e fa parte oramai del nostro sesto senso.
Le nostre orecchie, fin dai tempi della vita fetale, ci offrono la mappa delle presenze vicine e lontane.
Se immaginiamo, o se possiamo ricordare, cosa significa per un bambino l’esperienza di restare solo nel buio di una stanza, con le orecchie tese a cogliere i rumori, quando è negato il piangere o il chiamare, non ci sarà difficile comprendere quante antiche sensazioni di paura sono legate alle nostre orecchie.
Ascoltando i rumori della notte potrà tornarci in cuore la paura di questo mondo occulto e sconosciuto, che palpita nel buio più profondo del nostro io.
La contemplazione e la meditazione nella notte ci porteranno anche ad incontrare la nostra antica paura dell’oscurità. Naturalmente l’esperienza sarà più intensa se le ombre della notte non saranno illuminate artificialmente.
Le luci artificiali ci accecano la vista del nostro cielo, soprattutto in città, con varie conseguenze negative sul piano psicofisico per ognuno di noi.
Il cielo, come il mare, ci dà una sensazione di spazio e di profondità che sovente c’invita ad espandere il respiro, rendendo più profonde le sensazioni, i sentimenti ed anche i pensieri.
Quando l’oscurità della notte sarà “intatta”, come ci potrà capitare in qualche isola naturale, potremo contemplarla: non sarà impenetrabile, la luna e le stelle rischiareranno il cielo e le cose intorno a noi rifrangeranno sempre qualche luce.
Allora sentiremo molto probabilmente una tensione nei nostri occhi: è la tensione della paura, che ne limita l’apertura e la messa a fuoco e induce, in questi casi, a distoglier lo sguardo e ad avere la voglia di accendere una luce artificiale, “per vedere meglio”. Con una luce artificiale, come quella di una lampadina, vedremo meglio solo all’interno di un raggio limitato, ad esempio quello di un terrazzo o di un cortile, ma perderemo la profondità.
Restando al “buio”, l’occhio potrà vedere più in profondità, grazie al chiarore del cielo, con il suo gioco di luci ed ombre che diverrà pian piano più visibile, se saremo capaci di aprire le nostre sensazioni insieme al respiro.
Ma sarà proprio la paura delle ombre che ci farà venir voglia di scappare!
E’ questa un’eco delle notti prime della nostra infanzia quando, abbandonata la speranza di avere sempre vicino nostra madre, chiudevamo gli occhi per non vedere le ombre misteriose.
Questa, più o meno, è stata l’esperienza di molti, se non di tutti.
Quella che in questi casi incontreremo sarà dunque un’antica paura, legata ai nostri occhi fin dall’inizio della nostra vita. E sarà un bene per noi se torneranno a galla le paure della tenera infanzia: ora che siamo adulti potremo riconoscerle ed affrontarle ad una ad una e in questo modo fare crescere il cuore.

 

 

LA PAURA DELLA FOLLIA

 

Viaggiando dentro a questo itinerario incontreremo certo, prima o poi, un mostro a mille teste: è la paura della follia.
Nascosto nelle pieghe del cervello, pronto a tirar le redini del gioco e a farci far d’un tratto marcia in dietro, ci tiene imprigionati.
E’ la paura di perdere il controllo delle nostre emozioni, di perdere la testa e lasciare che avvenga l’esplosione di sentimenti terribili e nascosti, di schizzare per aria in mille pezzi.
E’ un mostro alimentato da tutte quelle occhiate e quelle grida, piene di rabbia e piene di paura, che hanno accompagnato le parole dei nostri genitori, quando ci hanno visto fare qualcosa che non apparteneva ai loro schemi e che sembrava loro minaccioso per la nostra adeguata educazione e per la nostra vita e spesso, inconsciamente, per la loro.
Nei casi peggiori è un concentrato d’odio e di paura che, di solito ignari, hanno scaraventato su di noi, nell’età in cui più fragile è la mente e più tenero il cuore e che ha pietrificato i nostri sentimenti primitivi.
La ribellione, la rabbia ed il rancore per l’offesa subita, ed ancor prima il dolore e la paura, sono scappati dentro a qualche buco del nostro corpo per non farsi vedere, terrorizzati dalla violenza dei sentimenti, solitamente inconsci, dei nostri genitori.
E’ una catena di terrore dei movimenti interni viscerali, che spesso paralizza molte generazioni familiari, è un messaggio profondo di paura che si tramanda infallibile nel tempo, che spesso non ha neppure bisogno di parole e come il seme di una mala pianta è germogliato in noi e ha messo le radici là dove cresce giorno dopo giorno la pienezza dell’io.
Ritroveremo spesso questo mostro, viaggiando dentro al nostro spazio interno.
Sarà il momento allora di rallentare e se non troveremo la forza di cacciarlo ci dovremo fermare.
Questi sono momenti in cui più forte sentiremo il bisogno di un maestro che ci aiuti a guardare, ad uno ad uno, le migliaia di sguardi che ci han fatto tremare, a respirare abbracciati a tutte le paure e a risentire i nostri sentimenti, senza annegare tra i fiumi di pensieri che annebbiano la mente.
Un maestro che ci tenga la mano e ci aiuti a vedere che non c’è la follia dentro la nostra strada, ma che ci sono solo gli incroci del passato che stiamo attraversando, pieni di confusione tra facce minacciose ed occhi amici.
Un maestro che ci aiuti a capire che dentro al nostro viaggio troveremo sempre diverse direzioni e che potremo perciò trovarci fuori strada e ritornare in dietro a fare passi nuovi, senza per questo avere smarrito la nostra bussola e il nostro orientamento.
Si potrà aprire allora innanzi a noi un orizzonte più libero e sereno, che ci sarà d’aiuto e di conforto mentre andremo più dentro al nostro mondo.

 

 

INCONTRARE LA PAURA SENZA FUGGIRE
                    
Incontrare la paura senza fuggire sarà un’esperienza fondamentale nel nostro viaggio: la paura, infatti, sarà sempre ad un passo da noi e quanto più la fuggiremo tanto più c’inseguirà.
Sarà importante dunque andarle incontro piano piano e, al momento giusto, toccarla con mano.
Durante il lavoro corporeo e la meditazione incontreremo spesso la paura.
Ci apparirà sotto diverse forme e con diversi aspetti, a volte minacciosi, a volte solamente fastidiosi: sarà molte volte la paura di sentire qualcosa che si starà muovendo dal nostro interno.
Se saremo capaci di fermarci e riconoscerla, di andarle incontro e stare un po’ con lei senza chiudere i sensi, apriremo una porta: di lì potranno allora transitare le sensazioni e i sentimenti che abbiamo rifiutato nella tenera infanzia e giungere di nuovo alla coscienza.
Ogni volta che questo ci accadrà sarà una nuova terra ferma nel grande mare del nostro viaggio, sarà un punto d’approdo su cui fermarci e da cui ripartire, avremo realizzato il paradigma della nostra ricerca: riuscire a costruire un ponte nuovo tra sensazioni e sentimenti negati, per potere così ristrutturare, col tempo necessario, tutto il nostro sistema di comunicazione con noi stessi.

 

 

FARE USCIRE LA RABBIA

 

E’ sempre stato il tempo della rabbia: nei giorni dell’infanzia avevamo sovente un buon motivo per essere arrabbiati.
La condizione reale, funzionale, nostra e dei nostri genitori era così diversa che c’è stato un conflitto d’interessi fin dall’inizio, che era anche un conflitto di potere: e siccome il potere è degli adulti la rabbia è dei bambini.
Abbiamo conosciuto la rabbia per la nostra impotenza in quantità e qualità diverse a seconda dei casi ed ognuno di noi è stato in grado di esprimerla quel tanto che gli è stato concesso dal codice comportamentale familiare.
Chi più, chi meno, siamo in genere pieni ancora oggi di rabbia infantile inespressa, mascherata e bloccata.
E la rabbia d’allora morde dentro ancor oggi e ci fa male.
Si maschera delle vesti del presente, in un modo però sproporzionato rispetto alla dimensione reale dei nostri conflitti di oggi e in questo si rivela per quel che è: un’onda del passato che coinvolge il presente e a volte lo travolge.
Dovremo ripescare nel mare dell’inconscio il volto vero della rabbia orale, anale e genitale dei primi anni della nostra infanzia.
Dovremo far uscire i movimenti veri originari che l’avrebbero espressa se non fosse rimasta imprigionata dalla nostra paura.
Dovremo gridare le parole vere che non abbiamo potuto dire allora.
Dovremo fare uscire l’animale ferito e incattivito che da allora vive dentro di noi e liberare la nostra anima dal peso del passato.
Ma la rabbia del nostro passato non deve uscire contro il nostro presente: finirebbe per fare il nostro male.
Dovremo poter contare su un maestro che ci sappia portare in un tempo e in un luogo adeguati, che non abbia paura di farsi toccare dai nostri sentimenti avvelenati e che ci sappia incoraggiare sulla strada della loro espressione, che è l’unica medicina che possa davvero guarire il cuore dalla rabbia e dall’odio, riportandoli alla loro sorgente originaria: l’energia della vita che cerca il piacere.

 

 

AFFRONTARE IL DOLORE CON IL PIANTO

 

Il viaggio alla ricerca dell’amore attraverserà tutti i sentimenti ed al momento giusto incontreremo il dolore.
Allora sarà il tempo di piangere.
Non ci saranno altre strade se vorremo evitare la depressione, che spesso siede al tavolo dei nostri giorni e ci mangia la vita.
Solo la condivisione con le persone care e la creazione artistica si avvicinano al pianto, come via positiva d’espressione e d’alleggerimento del dolore.
Il pianto è, d’altra parte, la via più naturale ed anche quella più positiva sul piano psicosomatico.
Sulla strada maestra del pianto incontreremo tuttavia molti ostacoli: tutto un sistema di falsi valori e di vecchie abitudini che sarà necessario disattivare.
“Non piangere...le lacrime non ti servono a niente...ti sciuperai soltanto gli occhi...”
Ce l’hanno insegnato i nostri genitori, ce l’hanno ripetuto all’asilo e poi a scuola, ce l’hanno cantato anche nelle canzoni.
Ora è dentro di noi, saldo e chiaro come una statua di marmo: non bisogna piangere, è segno di debolezza e ci può indebolire anche fisicamente, è roba da bambini, anzi da bambinette.
E allora su, facciamoci forza, stringiamo il nodo in gola e ricacciamo giù il pianto e, quando non ce la facciamo proprio più, versiamo qualche lacrima, ma di nascosto.
Siamo grandi, no?
Sì siamo grandi, ma spesso sembriamo piccoli uomini e piccole donne in balia d’un mare d’idee sbagliate, che annega il nostro mondo interiore e tiene sommersi i nostri sentimenti, in modo che non possano giungere agli altri e alla fine, di fronte alle cose più profonde della nostra vita, ci ritroviamo molto spesso soli.
Come ad esempio di fronte al dolore.
Nella vita il dolore è inevitabile, ci tocca tutti prima o poi, in un modo o nell’altro: la morte di una persona cara, la separazione da qualcuno o da qualcosa di importante per noi, il ricordo dei momenti passati che non tornano più, il sentirsi trattati male o rifiutati e così via, fino al vero e proprio dolore fisico.
E’ assai diffusa l’idea che il dolore vada affrontato in maniera composta e riservata, cioè senza lasciarsi andare al pianto, in particolar modo di fronte agli altri.
Eppure il modo più naturale di reagire al dolore è proprio il pianto, come c’insegnano bambini ed animali.
Perché dunque impedire, limitare o nascondere questa espressione naturale dell’organismo?

 

 

LA FUNZIONE PSICOSOMATICA DEL PIANTO

 

Abbiamo imparato da bambini che non va bene piangere, soprattutto dopo una certa età: c’è rimasta l’idea che piangere fa male.
Ciò è del tutto falso.
Quando siamo pieni di dolore, la sofferenza non è solo mentale, ma anche fisica: il dolore ci preme nel petto e ci stringe il cuore, il pianto ci sale su verso la gola e verso gli occhi, pronto a sgorgare come un ruscello in piena.
Di solito esprimiamo queste sensazioni con frasi tipo: “mi si spezza il cuore”, “sento un peso nel petto”, “ho un groppo in gola”.
Non sono frasi astratte, descrivono veramente la sensazione di ciò che accade in corpo, cioè da una parte la pressione, soprattutto nel petto e nella gola, del dolore e del pianto che vorrebbero uscire e dall'altra la tensione dei muscoli del petto e della gola, e di altri ancora, che fanno da argine.
Quanta tensione inutile, anzi dannosa!
Se lasciamo uscire il pianto, almeno nei casi in cui la situazione lo consenta, sentiremo allentare la pressione e la tensione.
Certo non ci libereremo del dolore, ma ne potremo sciogliere una parte e ci libereremo almeno di quella sofferenza dovuta al nostro ricacciarlo indietro.
Del resto, quando c’è il dolore, anche il mandarlo giù non serve a cancellarlo: potremo forse dimenticarlo, ma a costo di tensioni fisiche con le quali dovremo abituarci a convivere con inutile danno alla nostra salute.
Infatti alcuni gruppi di muscoli con i quali blocchiamo il pianto sono gli stessi che adoperiamo per la respirazione: mantenendoli contratti, per soffocare il pianto, togliamo elasticità ai movimenti del nostro respiro, che ne risulterà limitato.
Più questa situazione si ripeterà, più ne risulterà limitata anche la nostra vitalità e la nostra salute.
E’ meglio allora farci un bel pianto, che lascia aperta la strada della vita e ci permette di entrare in contatto con il nostro dolore e di riprendere forza, per risalire poi la china verso il nuovo piacere.
Possiamo dunque affermare che il piangere fa bene.
Stiamo parlando del pianto pieno e libero, che esce con le lacrime e i singhiozzi, non del pianto sommesso e trattenuto e tanto meno del piagnucolare o lamentarsi senza lacrime, espressioni del dolore imprigionato dalla paura e dalla vergogna di lasciarsi andare.

 

 

LA FORZA DEL PIANTO

 

Ci siamo abituati all’idea che il piangere sia un segno di debolezza e invece il trattenerci e il controllarci sia un segno della nostra forza.
Sono favole nere che ci hanno raccontato nell’infanzia e raccontano ancora tutti i falsi profeti dei doveri stereotipati e ciechi.
Ci vuole spesso più coraggio e forza a mostrare il dolore piuttosto che a nasconderlo.
In un certo senso è però vero che quando siamo pieni di dolore e ci lasciamo andare al pianto siamo più fragili, cioè più aperti e vulnerabili: è naturale quindi che non dobbiamo aprirci così tanto con chi non sa capire ed accettare questi sentimenti e potrebbe anzi usarli contro di noi.
Non sono certo le strade piene di gente sconosciuta, o i luoghi di lavoro, le situazioni adatte per mostrare i nostri sentimenti più profondi.
Con le persone che ci sono vicine, con le quali abbiamo un rapporto di fiducia, è possibile invece lasciarci andare quando è il momento giusto.
Del resto siamo tutti molto fragili in certe situazioni della vita e l’unica reale differenza è tra colui che lo ammette e chi è invece abituato a chiudere gli occhi e a nascondersi.
Se dunque saremo capaci di raccogliere tutta la nostra forza ed il nostro coraggio per manifestarci alle persone vicine al nostro cuore, faremo il nostro bene e quello loro, poiché il messaggio chiaro, forte e pratico sarà che, all’occorrenza, potranno fare altrettanto con noi.
E questo è senza dubbio di grande rilevanza nell’amore.
Se dunque nel dolore il sostegno che ci viene dagli altri è così importante, nel nostro viaggio sarà fondamentale accompagnarci a qualcuno che abbia spalle abbastanza solide, e soprattutto cuore, per saper reggere il peso dei nostri bagagli di dolore che spesso ci aiuterà a portare.
Perché chi vede il diavolo nel pianto scapperà in cerca dell’acqua santa delle mille parole di conforto, che non servono certo per scendere nel cuore, e ci offrirà, nel migliore dei casi, un sostegno di tipo spirituale.
Chi ha percorso la strada che passa per il pianto, ci potrà accompagnare nel nostro viaggio al centro della terra del dolore, dove si va con poche parole e con molta emozione.
Spezzate dai singhiozzi torneranno alla luce, dal passato del nostro cuore, le parole del nostro dolore: allora, insieme alla nostra guida che ci terrà per mano, ascolteremo tutte le parole che non abbiamo detto nel passato ed abbiamo ingoiato insieme con il pianto.
Sarà un momento di liberazione della forza più tenera del cuore: quella che poi ci servirà per ritrovare tutto il nostro amore.